Milano oggi è un forno a cielo aperto. Non è una metafora, è una misurazione. 76,5 gradi su uno scivolo in zona Corvetto. 62,8 su una panchina di plastica. Un parco giochi che diventa trappola. La periferia che arrostisce, mentre a pochi chilometri di distanza – sotto un filare di tigli – il termometro scende di venti gradi.
È la fotografia perfetta di una città spaccata. E non serve una lente sociale per cogliere il dato: basta una termocamera.
Le due Milano: Argonne e Corvetto
La mappa del caldo la disegna Legambiente, con 49 termografie, due giorni di sopralluoghi e cinque proposte (inascoltate). Il quartiere Corvetto emerge come zona rossa: 36 strutture mappate, la maggior parte prive di alberi, fontanelle, punti d’ombra. Si cuoce anche il marciapiede: via dei Cinquecento tocca i 52,5 gradi. Ma dove cresce un po’ di edera, la temperatura crolla a 36. In via Dionigi, dove gli alberi ci sono, il suolo è a 25,6. Argonne, invece, è più fortunata: verde urbano, ombra, una città che ancora riesce a respirare. E a far sopravvivere chi non ha aria condizionata.
La nuova povertà si chiama “cooling poverty”
Il nome è elegante, la realtà tragica: si chiama povertà climatica. E fa vittime. Secondo la London School of Hygiene, Milano è prima in Europa per decessi da caldo. Un triste primato: 317 morti in una sola estate. In media, oggi la città è più calda di 2,8°C rispetto al 1960. Un dato da Berkeley Earth che non lascia spazio a dubbi: il problema non è il futuro, è il presente.
L’urbanistica della pietra (e dell’abbandono)
Anche il centro, quello “di rappresentanza”, non se la passa meglio. Le nuove piazze – da Cordusio a San Babila, fino al Portello – sono diventate distese minerali. Spianate di cemento e pietra, eleganti quanto roventi. Sembrano pensate per una sfilata, non per chi deve viverle. Niente ombra, nessuna fontana, zero strategia climatica. Solo render, skyline e un’estetica da brochure.
I progetti nuovi: grandi nomi, nessun albero
Nei piani di riqualificazione urbana degli ultimi anni – celebrati con droni, conferenze e premi di architettura – il verde resta spesso un orpello. Aree completamente ripensate, spazi restituiti alla città, ma senza una vera forestazione. Tanta pietra, pochissima ombra. L’albero, nei render patinati, compare come comparsa decorativa. Ma sul terreno, sparisce.
La logica è la stessa: l’albero fa disordine, ingombra, sporca. E, soprattutto, non fotografa bene.
Perché mancano sempre gli alberi?
La domanda è diventata sistemica. Perché i progetti cittadini – anche quelli milionari – continuano a escludere gli alberi? Le ragioni non sono mai dichiarate apertamente, ma si muovono tra il timore di “snaturare” il progetto, i vincoli di manutenzione e la preferenza per una città pulita, geometrica, monolitica. Eppure basterebbero poche scelte precise: filari lungo le ciclabili, pergolati, rampicanti, vaporizzatori, vasche verdi. Nulla di invasivo, tutto di impatto.
Milano, la città che non vuole sporcare il suo passato col verde
Il primo ostacolo è culturale: si teme che il verde snaturi il carattere storico. Ma che senso ha proteggere la memoria della pietra se a crollare è la vivibilità? Milano non è un museo a cielo aperto. È una città dove si muore di caldo. Eppure gli esempi virtuosi esistono: piazza della Scala con il suo anello di alberi, piazza Fontana con la sua acqua, persino il sagrato del Duomo con le aiuole. L’estetica storica non è incompatibile con la sopravvivenza urbana. Basta volerlo.
Le (poche) soluzioni e il grande assente: il Comune
Le cinque proposte di Legambiente sembrano buonsenso applicato: più suolo permeabile, forestazione urbana, censimento dei rifugi climatici, de-pavimentazione, tariffe per la sosta anche dei residenti. Ma a Palazzo Marino si continua a dibattere di “visione”, “trasformazione”, “rigenerazione urbana”. Parole vuote se, fuori, si muore di caldo. E non è un caso che nel mirino torni proprio l’urbanistica: quella delle piazze-bara, delle panchine roventi, dei quartieri-spianata. La stessa urbanistica oggi al centro di un’inchiesta giudiziaria, che indaga sulle relazioni tra costruttori, varianti al PGT e visioni private della città del futuro.
Sopravvivere non può essere un lusso da centro città
«Il diritto a sopravvivere al caldo non può dipendere dal codice di avviamento postale», ricorda Barbara Meggetto di Legambiente. E ha ragione. Non è una questione ideologica. È politica, urbana, civile. E anche tragicamente concreta: si tratta di capire se Milano vuole essere una città che si guarda allo specchio… o una che permette ai suoi cittadini di respirare.
