L’evoluzione in certi campi può essere repentina. Ecco che, a pochi giorni dal voto, s’avanza sulla scena questa inedita figura che ha le fattezze di Giorgia Meloni, ma molte caratteristiche dell’attuale premier, reti di potere comprese. Ci sarà il suo avvento nell’Italia del dopo 25 settembre? Si vedrà. Intanto, però, qualcuno si prepara…
Non potrebbero essere più diversi. La capopopolo e l’economista. La fumantina e l’algido. La dileggiata e il venerato. Condividono appena i natali romani. Lei ruspante Garbatella, però. Lui altezzosi Parioli, invece. Giorgia Meloni e Mario Draghi, dunque. L’indomita oppositrice si prepara a varcare l’uscio di Palazzo Chigi, con draghiano afflato. Mentre il premier pare destinato ad altri superbi incarichi, con meloniana benevolenza. È l’ultima strana coppia. Tanto unita nei turbolenti destini tricolore da sciogliersi in un neologismo: «Dragoni».
Le vie della politica sono infinite. Ricordate il «Dalemoni»? Ottobre 1996: Giampaolo Pansa, nel Bestiario dell’Espresso, rubrica nata e poi ritornata su Panorama, s’inventa una creatura con le fattezze di Massimo D’Alema e la favella di Silvio Berlusconi. È la sintonia tra opposti. Come quella tra l’ex presidente della Bce e la leader di Fratelli d’Italia. Simpatia diventata stima con le ultime battaglie: guerra in Ucraina, atlantismo, rigore di bilancio, crisi energetica. «Coerente», lusinga lui. «Corretto», ricambia lei. Adesso però la corrispondenza s’è trasformata in comunanza. Dragoni si aggira per l’Europa, rassicurando le cancellerie. Si spinge Oltreoceano.
Se Giorgia sarà davvero la prima premier donna della storia repubblicana, non ci sarà nulla da temere. Mentre gli avversari continuano a urlare «All’armi son sovranisti», lei incassa la sorprendente neutralità delle progressiste più glam del pianeta: dal primo ministro finlandese, Sanna Marin, a Hillary Clinton, ex segretario di Stato americano. La benedizione del riverito premier non sembra però soltanto disinteressato altruismo. I buoni uffici, al momento opportuno, potrebbero venir ricambiati con sperticati appoggi.
Dopo l’appassionato discorso al meeting di Comunione e liberazione, nessuno immagina che Draghi si accontenti di fare il «nonno d’Italia», come assicurava mesi fa. Cincinnato nella campagna umbra, a Città della Pieve: passeggiate con il bracco Barsuk, messe domenicali, visite dei nipoti. Inverosimile. Il già SuperMario è ormai una riserva della patria, in servizio permanente effettivo. L’incarico più gradito resta, ovviamente, quello sfumato lo scorso gennaio: il Quirinale. Certo, Sergio Mattarella è stato appena rieletto. Ma potrebbe comunque seguire l’esempio del suo predecessore, Giorgio Napolitano, che lasciò 19 mesi dopo l’inizio del secondo mandato. La spinta del centrodestra verso il presidenzialismo sarebbe poi decisiva. Silvio Berlusconi l’ha detto senza cerimonie: «Se entrasse in vigore la riforma, Mattarella dovrebbe dimettersi». Draghi può aspirare anche a diventare il prossimo segretario generale della Nato al posto di Jens Stoltenberg, che lascerà tra un anno. Sempre con il sostegno di Giorgia, che così rafforzerebbe il suo ferreo atlantismo.
Da cara nemica ad apprezzata erede. Se le cose dovessero precipitare, potrebbe addirittura mutuare lo spirito unitario. Guido Crosetto, fondatore di Fratelli d’Italia, è ormai il corazziere che rifila la nuova strategia: moderatismo ed ecumenismo. Un’intervista via l’altra, tweet dopo tweet, apre inediti sentieri: «Giorgia non sarà la donna sola al comando» assicura. «Per il bene dell’Italia chiamerebbe Letta senza nessuna esitazione, come Conte o Calenda». Perfetto stile Dragoni. Con il premier ci sono però anche ampie convergenze programmatiche. A partire dal rigore sui conti pubblici. Se Matteo Salvini, capo leghista, chiede 30 miliardi per le bollette, l’alleata è contrarissima allo scostamento di bilancio. L’ennesimo messaggio ai naviganti europei: siamo consapevoli dei nostri limiti, visto il gigantesco debito. L’apoteosi arriverebbe con un eventuale governo. Nelle ultime settimane, Meloni e Draghi non hanno mai smesso di confrontarsi. Serve un esecutivo forte. Nomi di indubitabile prestigio. Che rassicurino sulle migliori intenzioni. Il ministero chiave è l’Economia. Il presidente del consiglio dimissionario suggerisce Fabio Panetta, membro del Comitato esecutivo della Bce. Lo scorso luglio, al compleanno di Gianfranco Rotondi, s’è appartato con Meloni per una mezz’ora. Le lusinghe, però, sembra che non funzionino. Panetta, per adesso, declina. Punta piuttosto a diventare il nuovo governatore della Banca d’Italia a ottobre 2023, quando scadrà il mandato di Ignazio Visco.
Il secondo nome consigliato da Draghi per via XX Settembre è quello dell’attuale ministro: il fedelissimo Daniele Franco. Ma la sua conferma simboleggerebbe una smaccata continuità. Sebbene convinto rigorista, il suo nome non entusiasma. Si esclude anche l’ipotesi di un clamoroso ritorno di Giulio Tremonti, ex ministro delle Finanze di era berlusconiana, candidato alla Camera proprio con Fratelli d’Italia. Non convincono i continui rimandi ai tempi andati, condensati nell’ultimo saggio: Le piaghe e la cura possibile. Una patina anti globalizzazione impossibile da scrostare, così come le antiche ruggini con il presidente del consiglio.
Assoluta continuità garantirebbe la conferma alla Transizione ecologica di Roberto Cingolani, il ministro più apprezzato del governo uscente. Non a caso, lo scorso dicembre, è stato ospite ad Atreju, la kermesse meloniana. Sull’emergenza energetica, le sue idee si sovrappongono a quelle di Fratelli d’Italia: tassazione degli extraprofitti, crediti d’imposta, spinta sul nucleare, lotta alle sovrintendenze ostili alle rinnovabili. E il tetto al prezzo del gas, ovviamente, proposto dal premier mesi fa. Giovanni Donzelli, coordinatore nazionale del partito, altro fedele termometro meloniano, ammette: «Ha il giusto approccio sui temi dell’ambiente».
Gli Esteri, invece, sono prenotati da Antonio Tajani, vice presidente di Forza Italia ed ex capo del parlamento europeo. Una candidatura che, però, non entusiasma Giorgia. Come quella di Salvini, che scalpita per tornare al Viminale. Comunque sia: tutto dipenderà dal risultato delle elezioni. Gli scenari sono due. Il primo prevede ampie concessioni agli alleati. Fratelli d’Italia conferma i dati degli ultimi sondaggi: intorno al 25 per cento, quindi. Lega e Forza Italia barcollano ma non mollano. Il secondo scenario è l’annichilimento. Giorgia sfiora il 30 per cento, Matteo tracolla al 10, Silvio sprofonda al sei. Alla Farnesina e al Viminale potrebbero andare allora tecnici di provata fiducia. Ma anche le leadership vacillerebbero. Il Capitano potrebbe dover lasciare la guida del partito all’ultragovernista Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli-Venezia Giulia. La sua regione il prossimo anno andrà al voto. Tempismo perfetto. Trionfo del Dragoni. Come, del resto, se venisse riaffidato un ruolo di primissimo piano al leghista più apprezzato dal premier: il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti. Tutto tornerebbe. Ancora una volta.
Forza Italia, invece, un successore del Cavaliere non ce l’ha. Si avvierebbe allora verso una mesta consunzione, magari nell’attesa di un papa straniero. Come Carlo Calenda, demiurgo centrista, autoproclamato depositario dell’agenda Draghi. Dopo aver già saccheggiato la nomenclatura azzurra, a partire dalle ex ministre Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, magari terminerà la sua scalata ostile. Se le cose andassero bene alle urne, sarebbe per Giorgia un’alternativa al centro destra classico. Draghiani fra Dragoni. Certo, restano le stentoree chiusure di Calenda. Ma pure del suo fedelissimo alleato, Matteo Renzi, diceva peste e corna: «Non farà parte di questa nostra area» tuonava a fine luglio. A proposito: gli irripetibili giudizi che in privato il leader di Italia Viva riserva al segretario del Pd, Enrico Letta, abbinate alle sorprendenti lodi per l’avversaria, confermano quale potrebbe essere la futura collocazione del centrino.
Ricapitolando: Meloni a Palazzo Chigi, Draghi al Quirinale, Panetta alla Banca d’Italia, Fedriga in via Bellerio, Calenda nella maggioranza. Una repubblica fondata sul Dragoni. n
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