Il giornalista nato «barricadero» a la Repubblica ha ricoperto ogni ruolo nella televisione pubblica. E con le nuove nomine Rai diventa responsabile degli «Approfondimenti». Con un controllo cruciale sull’informazione di tutte le reti.
Vabbè, mo’ ce tocca er piddino». Fra le migliaia di peones della Rai non si scomoda nessuno, l’approccio è lasco come quando gli toccava «er renziano» o «er grillino». Ma il tono di voce è molto più basso perché Mario Orfeo, di nuovo padrone dell’informazione pubblica, pare abbia sensori ovunque. Anche nei bar di via Settembrini. Dicono i bene informati che li avrebbe metaforicamente piazzati con scrupolo nei 12 anni trascorsi là dentro ad accumulare incarichi e battere record.
Uno su tutti: è l’unico giornalista italiano ad avere diretto Tg1, Tg2 e Tg3 (il leggendario Nuccio Fava si era fermato a due), in nome di una transizione ideologica forse seconda solo a quella del suo conterraneo Luigi Di Maio. E di un’indubbia capacità professionale.
Nella Rai draghian-piddina l’uomo Fuortes è lui, napoletano di 55 anni, che all’ultimo giro di valzer ha pescato il jolly: direttore degli «Approfondimenti». Detto così sembra il ruolo di un parcheggiato, di una risorsa democratica in stand by a incassare lo stipendio. Approfondimenti uguale L’Approdo, un gran passar di pecore della buonanotte, roba da Umberto Galimberti e Paolo Mieli, dov’è la fregatura?
E invece no, qui «Approfondimenti» significa supervisione operativa trasversale di tutti i talk show dell’azienda, da Porta a Porta a Report, da Cartabianca ad Agorà. Con un occhio (lungo) ai direttori di testata e l’altro a quelli dei Tg. Con un’attenzione vigile alle sensibilità del mondo dem nella stagione delle elezioni del Quirinale e in seguito politiche.
Soprattutto con un potere da gestire alla Orfeo: alta diplomazia con i potenti e sfuriate da commedia di Eduardo con i sottoposti.
Il collezionista (di poltrone) ha una biografia da predestinato. Forgiato al liceo classico Pontano dai padri gesuiti e dopo la gavetta al Giornale di Napoli, a 24 anni entra nella neonata redazione partenopea de la Repubblica, diventandone il miglior uomo-macchina. Poiché ha qualità e carattere, dopo tre anni passa a Roma, ai piani nobili del giornale-partito dove viene battezzato con affetto «capo della banda dei napoletani». Un vicerè. Indossa la corazza antiberlusconiana e partecipa alla guerra santa di Ezio Mauro. Determinato e allineato: nel 2001 è caporedattore centrale, nel cuore del giornale.
Quando, l’anno successivo, il soldato di Carlo De Benedetti va a dirigere Il Mattino di Francesco Gaetano Caltagirone, a largo Fochetti rimangono a bocca aperta: tradimento, delusione. «Che ci fa Mario fra i palazzinari capitalisti e reazionari?». Ci fa per sette anni (più quasi due al Messaggero); il tempo di cambiare colore alle camicie, conoscere Massimo D’Alema, Giorgio Napolitano, Pierferdy Casini, Mara Carfagna e prendere qualche lezione di piacionismo.
La riconversione industriale funziona così bene che nel 2009 – Silvio Berlusconi premier – Orfeo entra in Rai per sedersi sulla poltrona del Tg2. È in quota centrosinistra però ha la benedizione di Gianni Letta ed è pure milanista; in cda il voto a suo favore è unanime. Nel 2012 scala l’Everest del Tg1 nella gestione di Luigi Gubitosi compiendo il capolavoro dei grandi: sembrare imparziale. Non a caso la sua candidatura passa con quattro voti contrari: quelli dei consiglieri di area Pdl Luisa Todini e Antonio Pilati (percepito troppo di sinistra) e quelli dei consiglieri di area Pd Benedetta Tobagi e Gherardo Colombo (percepito troppo di destra).
Il suo telegiornale, prima lettiano e poi renziano, è comunque vincente nei numeri: oltre 5 milioni di telespettatori alla sera, 30 per cento di share, 10 punti sul concorrente Tg5. Anche il primo tasto del telecomando aiuta. A viale Mazzini trova il suo habitat naturale e galleggia stupendamente come un tappo di champagne. Offre caffè alla redazione di Dagospia, comincia a lottare contro pizzette e bilancia. Essendo lui single, gli vengono attribuiti flirt impressionisti (sempre smentiti) come quello con l’affascinante ex conduttrice di Unomattina Francesca Fialdini. Ha però il tempo per coordinare la rivoluzione digitale. Da direttore del Tg1 viene preso di mira da Beppe Grillo in vertiginosa ascesa; è accusato di disinformazione («ci taglia gli interventi») e di un approccio antipatizzante, gli viene chiesto di dimettersi. Con il Movimento 5 Stelle al governo vivrà una stagione in penombra e sarà costretto a far causa alla Rai prima di spostarsi dal purgatorio di RaiWay per ottenere, spinto a forza dal Pd, la terza poltrona Frau con sigla. Quella del Tg3.
La supercarriera sembra raggiungere il top nel 2017 quando è chiamato da Matteo Renzi (qualcuno dice più da Maria Elena Boschi) a sostituire Antonio Campo Dall’Orto dimissionario: direttore generale della Rai. Dovrebbe essere una passerella trionfale, invece è un breve calvario di 13 mesi. Orfeo è un bravo giornalista, un gran navigatore sottocosta ma non ha la stoffa del manager e riesce nell’impresa di farsi scippare da Mediaset i mondiali di calcio in Russia. L’Italia non si qualifica ma l’interesse per l’evento sportivo è comunque enorme: pare che con la mossa sbagliata abbia regalato al «Biscione» 100 milioni di fatturato pubblicitario in 15 giorni.
Quisquilie. Oggi con il Vicerè di Napoli nei dintorni il Nazareno è sereno. Controlla, negozia, risolve. Come fece con Fabio Fazio, allungandogli per altri quattro anni il contratto da 11,2 milioni di euro all’ultimo secondo utile, e trasferendolo da Raitre a Raiuno prima dello tsunami sovranista. Di fatto blindò Che tempo che fa contro le tentazioni centrifughe di leghisti e pentastellati.
Il fratacchione del progressismo pop lo sta ancora ringraziando.
