Il premier ha silenziato le baruffe e i contrasti tra i partiti. Decide lui su ogni argomento sensibile, come nel caso della riforma della giustizia, svuotando di senso gli affondi contrari all’interno della stessa maggioranza. In Europa il suo consenso surclassa quello di ogni altro leader. Senza di lui, pare di capire, si ferma anche il flusso di fondi del Recovery.
Quando gli riferiscono dell’ultima impuntatura o dell’ennesimo disaccordo, Mario Draghi prima storce la bocca disegnando un ghigno sardonico, poi alza le spalle malcelando sufficienza. Enrico Letta, ammaliato da lotta a transomofobia e tassa patrimoniale, vira a sinistra? Pazienza. Giuseppe Conte, tediato da inguaribile assenza di potere, cerca scaramucce su giustizia e reddito di cittadinanza? Pace. Matteo Salvini, per mantenere il controllo del centro destra, avversa obblighi vaccinali e green pass? Verrà a più miti consigli. Altrimenti, lascia intendere il premier, lui è pronto a sloggiare. Il sotteso è decisivo. I capi partito sono ben lieti di lasciargli l’incombenza di guidare il Paese. E lui non smania per rimanere a Palazzo Chigi. Combinata storica.
Crisi pandemica ed economica trasformano le baruffe politiche in rumori di fondo. «Video killed the radio star» cantavano The Buggles alla fine degli anni Settanta. Allo stesso modo, ma senza fanfare, Mario ha ucciso i divi della Terza Repubblica. Il suo metodo, per adesso, sembra infallibile: scontentare tutti per non scontentare nessuno. Lascia alle scorrerie ideologiche qualche giorno. O qualche settimana, nei casi più generosi. Tanto, alla fine, decide sempre lui. E quando i grillini presentano 900 emendamenti sulla nuova prescrizione, lui abbozza: ce ne faremo una ragione. Se insistono, c’è il voto di fiducia. L’alternativa resta tranciante. Una vita da Cincinnato. Draghi torna nel suo casale di campagna, tra i campi di zafferano, a Città della Pieve, in Umbria. Del resto, non sono impuntature o personalismi.
Per scongiurare eterne meline, l’Unione europea stavolta minaccia: niente riforme, niente soldi del Recovery plan. A proposito: l’ennesimo emendamento pentastellato, approvato dalle commissioni Ambiente e Affari costituzionali della Camera, mette a rischio 100 miliardi di euro di investimenti. Il premier e i ministri, grazie all’intemerata, dovrebbero sottoporre ogni progetto di infrastrutture al rissoso Parlamento. Ovverosia: in virtù dei conclamati successi, vedi Reddito di cittadinanza e lotta alla burocrazia, i pentastellati pensano di commissariare il governo. Di cui, per inciso, fanno parte. La rappresaglia sfumerà. Così come quella annunciata da Giuseppe Conte sulla riforma della giustizia, attesa da un trentennio. Già al cospetto di Mario, in un faccia a faccia che s’annunciava dardeggiante, Giuseppi ha confermato la sua indole andreottiana: meglio tirare a campare che tirare le cuoia.
Ha sfiancato tutti, l’ex presidente della Bce. Ma per grillini e grillismo è stato il colpo di grazia. L’epilogo s’era intuito fin dalla genesi: l’insediamento di Draghi, voluto dall’Elevato e subìto da eletti e iscritti. L’ennesimo triplo salto carpiato con doppio avvitamento. «Vogliamo davvero lasciare il Paese a Draghi?» berciava Beppe a settembre 2011. Dopo averci rimuginato su un decennio, lo scorso febbraio conclude: «Draghi è la soluzione migliore per questo Paese».
Non è più il superburocrate che affamava il popolo. Sulla soglia di Palazzo Chigi, «il banchiere di Dio è un grillino». Bastano cadreghine e ministeri minori. Terzo governo in tre anni. Inossidabili. Pena implosione, culminata con il ferino scontro tra Beppe e Giuseppi. Incapace, lo sotterra l’ex comico. Medievale, replica l’ex premier. Due monarchi spodestati dal dominio del presidente del Consiglio. Eppure, costretti a sopportarsi. Ecco dunque il risolutorio scatto in un ristorante di Marina di Bibbona, feudo del Grillopardo. I due, amabilmente attovagliati, incrociano le forchette per siglare il patto della spigola, innaffiata da vinello ghiacciato.
Requiem, più che prosit. Il nuovo statuto giuseppino trasforma i rivoluzionari Cinque stelle in un partito della primissima repubblica.«Diventeremo come l’Udeur, buono per la gestione di poltrone e carriere» profetizzava il Che Guevara di Roma nord, Alessandro Di Battista, eterno dissidente.
E Conte, dopo aver tentato di salvare il suo governo facendo ricorso a Clemente Mastella, fondatore del defunto gruppo centrista e sfortunato nocchiero dei Responsabili, adesso ne mutua la maestria organizzativa e spartitoria. «I partiti sono morti» si sgolava Grillo. Conte, doroteo in sedicesimi, riformula. Piuttosto, occorrono: presidente, vicepresidenti, consiglio nazionale, comitati tematici, comitato di garanzia, collegio dei probiviri, sedi locali, dipendenti, tesoriere, scuola di formazione.
Il Movimento è sepolto. Come il suo arcigiustizialismo, scardinato dalla riforma voluta dalla Guardiasigilli, Marta Cartabia, e dalla caduta del semidio grillino, Piercamillo Davigo, eroe di Mani Pulite indagato a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio. Resta un totem: il fallimentare reddito di cittadinanza. L’avvocato di Volturara Appula insiste per mantenerlo intonso. Il premier, ancora una volta, lascia sfiatare la propaganda: «So’ ragazzi», direbbe Gigi Proietti. In compenso l’alleanza tra i Cinque stelle e il Pd, di cui si ragiona da un biennio, prosegue come sempre. Nel vuoto pneumatico.
Se Giuseppi annaspa, Enrichetto affoga. Richiamato dall’esilio accademico francese a furor di correnti, Letta doveva far rinascere il Pd usando con destrezza «anima e cacciavite», titolo del suo sfortunato libello. E invece molti, a partire da Base riformista, vorrebbero usare la sua cassetta degli utensili per sbullonarlo dal vertice del Nazareno. Sulla strenua lotta per il Ddl Zan, rinviata all’autunno, il premier non proferisce parola. Mentre ha sonoramente bocciato la lunare ideuzza di patrimoniale. E assiste perplesso alla confusa retromarcia del segretario dem su processi e prescrizione. Morale: appena tornato in patria, Enrichetto pareva il gemello diverso di Mario. Ora somiglia a un cugino svitato che, con i suoi sproloqui, rovina il pranzo della domenica.
Per non parlare del vicesegretario del Pd, Peppe Provenzano: a ulteriore riprova di marginalità e massimalismo, attacca la task force liberista voluta da Draghi, capitanata dall’economista Francesco Giavazzi. La reazione dell’algido premier è sempre la stessa: spallucce.
Della compagine governativa, giova ricordarlo, fa parte anche Articolo uno, guidato da Roberto Speranza, ministro della Salute trasformato in comprimario. Ma il partitino più a sinistra del Parlamento, tutto sussidi e patrimoniale, è stato tagliato fuori pure da ogni decisione sul Recovery. Finito in identici bassifondi, due per cento o giù di lì, anche Matteo Renzi pensa a sopravvivere. L’abile manovra che ha portato alla destituzione dell’odiato Giuseppi e l’entusiastica adesione al draghismo non giova. Italia Viva languisce. E l’ex Rottamatore tuba spudoratamente con Forza Italia, ugualmente ipergovernista e in decomposizione. Oh, in realtà gli azzurri sarebbero in predicato di maritarsi con la Lega in un partito unico: nozze però d’interesse, dunque malvolute da tutti.
Il leader in pectore dell’ipotetica compagine, Matteo Salvini, invece ondeggia: in maggioranza certo, ma con salienti distinguo. Sebbene, pure nel suo caso, destinati a scemare, causa solita imperturbabilità del premier. Anche il leader leghista subisce l’autonomia di Draghi.
L’ultimo smacco è la nomina di colei che avrebbe «rovinato la vita a milioni di italiani»: Elsa Fornero, già ministro del Lavoro tra il 2011 e il 2013, nominata consulente economico di Palazzo Chigi. Ma il vero assillo è un altro: la Lega superata nei sondaggi da Fratelli d’Italia, unico partito all’opposizione. L’ascesa di Giorgia Meloni sembra irrefrenabile. Così come la sua astuzia. Non attacca Draghi sul piano personale. Anzi, continua a coltivare ottimi rapporti. Tanto da non escludere di sostenerlo in un’ipotetica corsa al Quirinale. Anche se, per adesso, lo scenario più probabile rimane la permanenza a Palazzo Chigi fino al 2023. E a quel punto, piuttosto che assistere all’ascesa della prima premier donna italiana della storia, Salvini preferirebbe, e di gran lunga pure, un Draghi bis.
A differenza di Conte, estenuante traccheggiatore, Draghi è un impaziente decisionista. Non c’è più tempo per le irrequietezze dei partiti: strategie, ideologie, demagogie. Sta per cominciare il semestre bianco. E le riforme legate al Recovery plan vanno approvate subito. «Diversamente, qualcuno dovrà assumersene la responsabilità» va ripetendo il premier.
«C’ha preso gusto», dicono. Così come suoi più fidati consiglieri, aggiungono. A partire proprio dal bocconiano Giavazzi, che si muove ormai disinvolto nell’immaginifica «stanza dei bottoni» di Pietro Nenni. Il premier, appena insediato, spiegava che bisognava occuparsi dell’emergenza pandemica. Poi dell’economia. Così, ora cercherà di riguadagnarsi il soprannome con cui lo blandivano ai tempi della Bce: SuperMario.
Dopo la giustizia, sarà la volta del fisco. E anche in questo caso, sarebbe intenzionato a fare a modo suo. Con i partiti in disfacimento, potrebbe imporre una riforma disegnata dai fedelissimi. Nessuna mediazione. O quasi. Mentre i leader scaramucciano, Draghi è sempre più solo al comando. E a settembre la cancelliera tedesca Angela Merkel lascerà. Il premier italiano partirà quindi alla conquista del continente. La quieta vita da Cincinnato, a Città della Pieve, sembra un’espediente. La politica italiana, nei prossimi anni, avrà ancora bisogno del suo carnefice.
