In tanti vorrebbero i voti dell’elettorato moderato che una volta si riconosceva nella Democrazia cristiana e che si rispecchia nella concretezza del premier. La lista è lunga e comprende Matteo Renzi, Carlo Calenda, Renato Brunetta, Giovanni Toti e persino Giancarlo Giorgetti…
La Quarta repubblica è l’eterno rimpianto della Primissima. Allora come adesso: tutti al centro. Stavolta però non ci si divide in rivoli, siglette e partitini. C’è un’unica corrente, d’inarrivabile prestigio e buonsenso: il neodemocristianesimo draghiano. Leader in disarmo, ministri arrembanti, vecchie glorie scudocrociate. Da destra a sinistra, entusiasmo irrefrenabile. Non moriremo sovranisti e neppure democratici sinistri. Mario Draghi ora è a Palazzo Chigi. Domani, forse, salirà al Quirinale. Poco importa. L’Italia non potrà più farne a meno. Meglio portarsi avanti con il lavoro. Basta truculenti estremismi. Una nuova era è cominciata. Il premier esemplifica moderazione e morigeratezza. Evoca soffice doroteismo. Del resto, il suo governissimo è la grande ammucchiata. Uno spericolato e inevitabile pentapartito: Pd, Cinque stelle, Italia viva, Lega, Forza Italia, oltre a cespuglietti vari. E sulla tormentata manovra Finanziaria si registra già il primo anelito di concordia. Ma è il cattolicesimo l’indelebile tratto che accomuna davvero tutti. Draghi, che a Città della Pieve non perde una messa domenicale, è «l’uomo della provvidenza» annuncia il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana. Nessuno, dalle parti del Vaticano, aveva mai osato tanto.
Da Super Mario a Mario Pio. Il futuro è l’inevitabile tuffo nel passato. Ed ecco la neodiccì draghiana. Lui, ovviamente, non si cura di queste meschinità terrene. Non ripeterà l’errore commesso dai suoi predecessori: tecnici come Lamberto Dini o Mario Monti. Pochi mesi dopo aver messo piede a Palazzo Chigi, folgorati dal fascino illusorio della politica, fondarono velleitari partiti finiti rapidamente nell’oblio. In suo nome però, da Portopalo a Predoi, s’apparecchia uno schieramento trasversale disposto a tutto pur di cogliere l’attimo. Alla ricerca del centro di gravità permanente: refugium peccatorum di apolidi, scalpitanti e dimenticati.
Occasione unica, d’altronde. Tutti i partiti, per esempio, vantano recalcitranti. Ogni tentativo di secessione ha però sempre avuto risultati esili. Per dirne una: nemmeno i più scalmanati detrattori avrebbero mai immaginato lo sfacelo di Italia viva. Matteo Renzi, a settembre 2019, annuncia ribaldo: «Questo non è un partito del cinque per cento». Magari, aggiungerebbe adesso. La forchetta oscilla tra l’1,5 e il 2 per cento. Avanti così, arriva la fine. La soave Maria Elena Boschi torna a Laterina. Il diabolico leader è costretto a intensificare i retribuitissimi viaggi in Arabia Saudita, «culla del Rinascimento». Questa è davvero l’ultima spiaggia. Istinto di sopravvivenza più che moto ideale. Il deputato e coordinatore nazionale, Ettore Rosato, gongola: «Il partitone di centro si farà nel nome di Draghi». E può valere, stima, il 20 per cento e oltre.
I contatti tra gli entusiasti aderenti proseguono. Renzi freme. Stringe accordicchi. Incontra tutti, ma predilige forzisti ed ex forzisti. Inaffondabili come Gianfranco Miccichè, ancora proconsole del partito in Sicilia. Affondati come Marcello Dell’Utri, tornato sul proscenio. Si profila un nuovo patto del Nazareno, stavolta nel nome del premier. Le prove generali ci saranno con l’elezione del presidente della Repubblica. Forza Italia fibrilla da tempo. Il partito unico con la Lega è tramontato. Silvio Berlusconi punta al Colle, o per lo meno alla nomea di padre della patria.
Non è il certo momento di dare altro spago ai sovranisti. Servono piuttosto i miti consigli di Gianni Letta, «eminenza azzurrina» nonché riverito zio del «Nipotissimo» Enrico, segretario del Pd che lancia larghe intese sulla Finanziaria. I tre ministri berlusconiani, ammaliati dal premier, sono ormai separati in casa. Renato Brunetta, alla Pubblica amministrazione, è l’esegeta. Contrario a ogni patto con Lega e Fratelli d’Italia, evoca pure lui il centro: «In molti stanno ragionando su un partito per Draghi». E lui ne sarebbe un perfetto alfiere. Come Maria Stella Gelmini, agli Affari regionali, che baruffa con il «cerchio magico» del Cavaliere. S’accoda Mara Carfagna, ministro per il Sud, da anni sul punto di lasciare.
Carlo Calenda, creatore di Azione, la inserisce nello squadrone ideale: «Bisogna dare rappresentanza a chi si riconosce nel riformismo di Draghi». Sull’altare della nuova cosa centrista, ha riallacciato finanche con il leader di Italia viva, platealmente difeso per l’inchiesta sulla fondazione Open: «Vogliono mettere Renzi all’angolo. Un Paese così mi fa abbastanza schifo».
Carlo e Matteo. Che coppia. Clemente Mastella, sindaco di Benevento e imperituro manovratore, s’appella ai due: «Costruiamo un centro a livello nazionale». Modestamente, chi meglio di lui? Già fondatore di Ccd, Cdu, Udr, Udeur. Sempre nella celeste tradizione diccì. Adesso sogna un mortifero tridente sotto lo stesso scudo. Calenda, ingeneroso, lo stende: «Anche no». Proseguono al contrario proficui scambi con Coraggio Italia, di Luigi Brugnaro e Giovanni Toti.
Il governatore della Liguria, a differenza dei riottosi ministri berlusconiani, ha abbandonato Forza Italia più di due anni fa. Adesso il suo partito conta 35 parlamentari. Potrebbero diventare decisivi quando partiranno le grandi manovre per il Quirinale. Partono in vantaggio. Loro al centro ci stanno già. Draghiani in purezza. Perfino nel Pd si rimira al celeste approdo. Capofila degli apostoli è il ministro della Difesa, non a caso ex democristiano, Lorenzo Guerini. È il dem della compagine governativa più stimato dal premier. La sua corrente, Base riformista, ha un peso decisivo nei gruppi parlamentari grazie al raccordo di Luca Lotti e Andrea Marcucci, ex fedelissimi di Renzi. Tutto torna, insomma. Comunque, dopo le battaglie identitarie su ius soli e lotta all’omotransfobia, pure Letta junior, segretario dei democratici, sembra abbia messo la testa a posto, per tornare quel mellifluo margheritino che avevamo imparato ad apprezzare in passato. Tanto da aver proposto il patto della Finanziaria. Gli ingenerosi commentano: finalmente è tornato ad ascoltare i consigli dello zio Gianni.
Tra i grillini, invece, sprizza entusiasmo il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, già arcigiustizialista e ultramovimentista. Ne sanno qualcosa i colleghi grillini: Stefano Patuanelli, Fabiana Dadone e Federico D’Incà. Tutti costretti, loro malgrado, ad assecondarlo sull’indigesta controriforma della prescrizione. Adesso Giggino punta a sfilare il partito dalle mani di Giuseppe Conte, fautore dell’alleanza con il Pd. Di Maio ha progetti diversi. Al centro. Pure lui. Magari in compagnia di Giancarlo Giorgetti, vicesegretario leghista, con cui vanta splendidi rapporti.
Il ministro dello Sviluppo economico, del resto, è il più draghiano di tutti. Vanta con il premier sconfinata e ricambiata stima. Il problema è che il sentimento sopravanza, come nel caso dei colleghi forzisti, quello nutrito verso Matteo Salvini. Giorgetti è sempre stato il leghista più democristiano. Da mesi predica l’addio al sovranismo e la svolta centrista. E non sono mancate colorite bordate al capopartito. Uno che mena sganassoni per fare incassi, alla Bud Spencer, piuttosto che impegnarsi in interpretazioni da Oscar, alla Meryl Streep. Anche sui territori, la distanza da Salvini è rimarcata da due governatori di grande consenso e felpatezza: Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli-Venezia Giulia e guida della conferenza delle Regioni e il doge veneto, Luca Zaia. Una sponda su cui Draghi sa di potere contare per ridimensionare i leghisti di lotta.
Il premier è l’«uomo della Provvidenza», rivela la Chiesa. L’appoggio più sperticato di sempre. Maurizio Crozza coglie il momento con l’irriverente imitazione. Draghi, abbigliato da sacerdote, invita a recitare l’«ora pro bonus», in lode delle agevolazioni promesse. Le misure più plaudite dai prelati sono però la conferma del reddito di cittadinanza, l’approccio «umano» sui migranti, il rovello dei cambiamenti climatici. Dal Vaticano s’alza un’ode: che Dio ci conservi Super Mario, pardon Mario Pio. E che la Balena bianca torni, finalmente, a solcare i nostri mari.