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Lo spin doctor di Boris Johnson

Lo spin doctor di Boris Johnson

Uno stile informale e un approccio così indisponente da farlo odiare dai suoi stessi compagni di partito. Eppure il premier britannico si è affidato a lui per le scelte strategiche e la propaganda sulla Brexit. Perché al di là delle stravaganze, l’eminenza grigia Dominic Cummings vuole cambiare i contenuti e il linguaggio della politica.


Soltanto nelle ultime due settimane ha cacciato mezza stampa accreditata dalle riunioni dell’esecutivo e ha costretto alle dimissioni il ministro del Tesoro. Mai stato un tipo accomodante Dominic Cummings, il geniale stratega dietro le quinte dei maggiori successi del primo ministro britannico. Boris Johnson ci mette la faccia, lui il cervello. Sebbene si sia definito un «non conservatore» ha sempre lavorato – con alterne fortune – per questo partito. Opponendosi all’istituzione, la sta cambiando da dentro.

Nato a Durham, Nord Inghilterra 49 anni fa, figlio di un costruttore di piattaforme petrolifere e di una docente in scienze comportamentali, sposato con una giornalista del settimanale Spectator da cui ha avuto un figlio, Cummings ha frequentato la scuola pubblica, e poi quella privata, prima di laurearsi a pieni voti a Oxford, in Storia antica e moderna. Personalità controversa, che suscita immancabilmente sentimenti ambivalenti, tanto brillante quanto spregiudicata.

Gli attriti che ha scatenato ultimamente sia tra governo e organi d’informazione sia all’interno dello stesso esecutivo sarebbero stati sufficienti a far licenziare chiunque, ma non lui. Il motivo? Johnson sa che insieme formano una coppia formidabile. Ottima la sua intuizione di affidarsi a un personaggio che vuole demolire proprio l’establishment rappresentato dal novello inquilino di Downing street.

Il cuore di Cummings batte, almeno in parte, a sinistra anche se non ha mai posseduto una tessera di partito. Daniel Hannan, amico di Cummings, affermò in passato che «la cosa migliore fatta dal fondatore del “Leave” è stato coinvolgere Dominic». Poiché colui che è stato perfidamente soprannominato il «Rasputin di Boris» dall’Europa non se ne sarebbe andato, chi meglio poteva convincere gli elettori indecisi a votare per la Brexit?

Certo il suo approccio per intercettare gli umori della gente non è mai stato ortodosso. Benedict Cumberbatch, l’attore che si è calato nei suoi panni nel film Brexit: the uncivil war, realizzato dalla Bbc, rende bene l’idea, quando lo mostra mentre appoggia l’orecchio a terra per captare il sentimento della nazione. Non si sa se sia una licenza artistica dell’attore, ma è di sicuro un comportamento alla Cummings, così come l’abitudine di ritirarsi a meditare nel ripostiglio delle scope.

Stranezze che non pregiudicano certo la sua eccezionale abilità nella comunicazione immediata. Gli slogan che rimarranno nella storia politica di Johnson, ripetuti come un mantra, sono frutto della mente inarrestabile di questo nerd che ignora l’esistenza delle camicie. Take back control, «riprendiamoci il controllo», dell’economia, dei confini, insomma del Paese, è uno slogan che Cummings aveva coniato nel lontano 2003, al tempo della campagna contro l’adesione all’euro.

Fino al capolavoro di efficacia Get Brexit done, le tre parole magiche con cui il primo ministro ha trionfato alle elezioni. Grazie a esse il partito conservatore ha sfondato per la prima volta «il muro rosso del Labour» dei diseredati nel Nord dell’Inghilterra, il cui voto gli ha dato il potere. E l’ultimo «level up», la promessa di portare tutti i cittadini del Regno allo stesso livello, è l’obiettivo di Cummings. I dimenticati dalla sinistra, per quest’uomo che ha trascorso gli anni dopo la laurea nella Russia post-sovietica, sono un’ossessione. Se si accorge che l’obiettivo non è condiviso nella pratica, sono guai.

Con l’ex premier David Cameron, di cui fu consulente, scoccarono scintille. Cummings una volta lo definì «incapace di portare avanti anche una sola proposta» nell’ambito delle prove di forza con l’Unione europea. Un paio di giorni dopo, a un garden party, Cameron liquidò il suo illustre assistente come «uno psicopatico in carriera di cui il governo non ha bisogno». Boris Johnson – peraltro etoniano come Cameron – invece ritiene di sì.

Ne è talmente convinto che, almeno finora, ha resistito a licenziarlo, anche se le pressioni in questa direzione sono sempre più forti. E non potrebbe essere diversamente poiché, al contrario di Johnson, che limita le sue stravaganze a qualche scaramuccia romantica con la fidanzata, Cummings di quello che pensano di lui negli ambienti che contano se ne frega davvero. Secondo i suoi amici sarebbe pronto a mollare pure Boris. «Dom è qui per realizzare delle cose» spiega uno di loro. «Se Johnson non lo asseconda su questo piano prima o poi gli dirà che si chiama fuori». Una verità che si evince anche dal suo leggendario Blog che Stefan Collini, docente di letteratura inglese a Cambridge, si è preso la briga di leggere con gran fatica dato che si tratta di decine di migliaia di pagine online.

Secondo Collini, oggi Cummings è il vero project manager del governo. «Lui è per Downing Street quello che il manager di Deliveroo è per il ragazzo che consegna gli ordini. Al capo non interessa se avete ordinato una pizza al salame o ai quattro formaggi. Gli preme che il lavoro venga eseguito e se questo dovesse comportare pedalare con la bicicletta contromano, be’, si tratta di un dettaglio. Cummings non ha mai giocato secondo le regole».

Ma è in questi giorni che la lotta per il potere tra governo e premier si è fatta incandescente. Dominic non tollera ostacoli sulla sua strada e a Johnson serve un esecutivo manipolabile. Così, quando il ministro delle Finanze Sajid David si è rifiutato di sostituire l’intero suo team con uno impostogli da Cummings, ha dovuto dimettersi. Il mese seguente il Times aveva rivelato che l’alter ego di Johnson era riuscito a ottenere il potere di licenziare i consulenti dei ministri e assumerne di nuovi.

Cosa che ha fatto, richiamando a sé «i nerd e gli stranetti del Paese», quelle menti brillanti, spesso ex adolescenti bullizzati, di cui Downing Street, a suo parere, ha forte bisogno se vuole cambiare radicalmente la gestione attuale. Peccato che uno di loro, Andrew Sabisky, sia durato in ufficio lo spazio di un mattino, riuscendo a creare comunque forti imbarazzi all’esecutivo con i suoi commenti razzisti e sessisti a proposito dell’intelligenza dei neri e della contraccezione obbligatoria.

Ciò nonostante la coppia più strana della politica inglese va avanti per la propria strada. Subito dopo la vittoria alle elezioni, Johnson è tornato a bomba sul concetto di One nation, un Paese finalmente riunito, in cui nessuno viene lasciato indietro. Una nazione che può essere grande anche tagliando i ponti con l’Europa, favorendo le proprie risorse umane, ritrovando un’identità perduta, rafforzando antiche alleanze.

«Qualcosa già promesso anche da David Cameron e Theresa May» ricorda il politologo Tim Bale «soltanto per varcare il lucido portone di Downing Street e fare esattamente l’opposto». In un mondo ormai totalmente interconnesso grazie alla rete, l’obiettivo risulta più che ambizioso. Nessuno più di Cummings ne è consapevole e chi lo conosce sa che quando fa una cosa sta già guardando oltre. Sul post Brexit tuttavia si naviga a vista.

La seconda fase delle trattative con Bruxelles non è ancora iniziata e già volano minacce da entrambe le parti: Londra vuol vietare l’accesso ai lavoratori non specializzati e Bruxelles minaccia la chiusura sulla circolazione dei beni. Sul fronte interno, intanto, i cittadini si aspettano che il governo mantenga la promessa di rivitalizzare le zone più povere del Paese e di risollevare il Sistema sanitario nazionale dalla sua crisi. Dominic, con le sue idee bizzarre ma spiazzanti, potrebbe essere fondamentale in questa nuova fase. E sarà certamente cruciale per il futuro politico di Johnson.

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