La Procura generale di Brescia ha deciso di avocare a sé l’inchiesta sui ritardi e le omissioni nella lotta al virus, dopo che altri tribunali l’avevano archiviata. E così emerge che i provvedimenti assunti del governo e dal commissario Arcuri non furono dettati dalla situazione d’emergenza.
Da mesi, le procure di mezza Italia aprono svogliatamente e chiudono lestamente fascicoli sulla gestione governativa dell’emergenza. Clienti e avvocati continuano a collezionare rinvii e archiviazioni. Anche a Cremona era andata così. Quell’esposto sul mancato approvvigionamento di tamponi stava per finire in archivio. Ma la Procura generale di Brescia, lo scorso 5 novembre, ha tolto l’indagine ai colleghi. E adesso proprio quell’atto di avocazione sembra annunciare un’inchiesta sui ritardi e le omissioni nella lotta al coronavirus. La Procura di Cremona aveva iscritto il procedimento nel registro dei «fatti non costituenti notizia di reato»: il cosiddetto modello 45. E il 30 luglio 2020 aveva disposto l’archiviazione, senza nemmeno passare dal gip: «I provvedimenti assunti dal governo e dal commissario straordinario sono senz’altro catalogabili come scelte politiche dettate dalla situazione emergenziale».
Il sostituto procuratore generale di Brescia, Anna Emilia Caccamo, è di tutt’altro avviso. Le «notizie di reato» ipotizzate dall’esposto sarebbero invece chiarissime: epidemia colposa, omicidio colposo, lesioni colpose, abuso d’ufficio e omissione di atti d’ufficio. Certo, per il momento restano a carico di ignoti. O meglio, di «persone da individuare». Tra cui i politici. «Trattandosi di atti e provvedimenti del presidente del Consiglio e/o del ministro competente, deve trovare applicazione l’art. 96 della Costituzione» spiega Caccamo nell’atto di avocazione, controfirmato dal procuratore generale, Guido Rispoli. Adesso, dunque, il fascicolo sarà trasmesso al Tribunale dei ministri competente. Il primo indizio che fa pensare all’apertura di una vera inchiesta. Che partirebbe, tra l’altro, proprio dall’ufficio giudiziario più autorevole di una delle provincie più martoriate nella prima fase dell’epidemia. Brescia, appunto.
Tutto comincia lo scorso 21 maggio. L’avvocato Giancarlo Cipolla presenta un esposto per conto di Giovanna Muscetti. Lei è una manager milanese. La scorsa primavera s’è adoperata per trovare l’indispensabile: test, mascherine, software e perfino un reparto Covid prefabbricato. Donazioni partite spesso dalla Cina e finite negli ospedali lombardi. Muscetti racconta: «Da volontaria, mi sono scontrata con un’incredibile inerzia, seguita da errori e sottovalutazioni». Così, sei mesi fa, parte la denuncia. Cipolla ricostruisce quel convulso periodo. A partire dal caos dei tamponi. Mentre a metà marzo mezzo milione di test prodotti in Italia finisce all’estero, governatori e assessori regionali denunciano sbalorditive lentezze. Mancano anche i reagenti. Ma perché nessuno, nelle settimane precedenti, ha sequestrato tutti i tamponi reperibili sul mercato nazionale? Eppure, spiega l’avvocato, bastava un’ordinanza. Come quella emanata dallo stesso commissario all’emergenza, Domenico Arcuri, il 19 marzo 2020. Quando decide di requisire il farmaco di un’azienda lombarda usato per sedare i pazienti in terapia intensiva.
Alle carenze e ai ritardi si aggiunge una circolare del ministero della Sanità, datata 9 marzo 2020: stabilisce che il tampone può essere eseguito solo ai pazienti con infezione respiratoria acuta grave e a chi è stato a stretto contatto con positivi o sospetti contagiati. Una posizione che ricalca le convinzioni di Walter Ricciardi: comandante in capo dei consulenti del ministro, Roberto Speranza. A fine febbraio, il professore si scaglia contro i test di massa per gli asintomatici ordinati in Veneto, a Vo’ Euganeo: «Un errore» assicura «che ha portato confusione e allarme sociale».
Peccato che, nel paesino del padovano, lo screening di massa si riveli salvifico. Il 22 marzo 2020, dopo che l’Italia ha superato la Cina per numero di contagi, Ricciardi dunque rettifica. Tamponi anche a chi non ha i sintomi, ordina: «Partiamo dalla prossima settimana». Qualche giorno più tardi, il 3 aprile 2020, anche il ministero della Salute recepisce la brusca sterzata. Così modifica quei criteri, in vigore da quasi un mese. Un mese in cui, intanto, hanno perso la vita migliaia di persone. Ma da quel momento, informa una nuova circolare, bisogna invece dare massima priorità ai test. Infine, con usuale surplace, arriva persino Arcuri: l’11 maggio 2020 pubblica la «richiesta di offerta» per kit diagnostici e reagenti.
L’esposto viene inviato ad alcune procure lombarde. La prima ad accantonare tutto è, appunto, quella di Cremona. Il 30 luglio 2020 dispone l’archiviazione: tutti i provvedimenti adottati dal governo e dal commissario sono stati «scelte politiche». Non si possono nemmeno configurare reati. Lo stato emergenziale sarebbe quindi un inscalfibile scudo giudiziario. Non serve nemmeno passare dal giudice per le indagini preliminari, il faldone deve andare direttamente in archivio. L’1 settembre 2020 l’avvocato milanese presenta però istanza di avocazione alla Procura generale di Brescia, che «vigila» proprio sugli inquirenti cremonesi. I pm avevano l’obbligo di esercitare l’azione penale, sostiene l’avvocato. E avevano anche l’obbligo di rimettere gli atti al Tribunale dei ministri di Cremona.
Tesi accolte. Lo scorso 5 novembre arriva l’avocazione. «È una decisione che offre un’esemplare lezione di indipendenza e autonomia della magistratura rispetto agli altri poteri dello Stato» commenta Cipolla. Un caso più unico che raro, insomma. Ma nelle tre pagine firmate da Caccamo e Rispoli si va ben oltre la censura procedurale. «Dall’esame dell’esposto e dal riscontro normativo della legislazione d’emergenza si può ricavare quanto segue…» premettono i magistrati di Brescia prima di elencare i «fatti storici». A partire proprio da quel volo, carico di tamponi prodotti in Italia, partito il 16 marzo dalla base militare di Aviano e diretto a Memphis.
Ma proprio due giorni prima, il 14 marzo 2020, veniva approvato il regolamento di Esecuzione dell’Unione europea. Vincolava, per 6 settimane, l’esportazione dei dispositivi di protezione individuale alla preventiva autorizzazione dello Stato. La Procura generale conclude: «Secondo la normativa vigente era stato conferito al capo del dipartimento della Protezione civile e al commissario straordinario il potere di disporre la requisizione in uso o in proprietà, tra i vari beni, di presidi sanitari medico-chirurgici».
E visto che Arcuri sarà nominato solo qualche giorno dopo, eventuali responsabilità ricadrebbero su Angelo Borrelli, gran capo della Protezione civile in quel momento. Era lui che poteva, e forse doveva, fermare quel carico per destinarlo alla sanità italiana. I magistrati bresciani, infatti, riportano anche le «evidenze cliniche sulla mancata esecuzione del tampone e quindi dal mancato tempestivo accertamento della patologia». Errori che potrebbero aver causato i morti per polmonite, embolia polmonare e arresto cardiocircolatorio «nella abnorme misura rilevata nei primi mesi del 2020».
La Procura generale evidenzia pure la circolare di inizio marzo che imponeva il tampone solo per i casi gravi o i contatti sospetti. Così come quella dell’1 aprile, che raccomandava di evitare le autopsie sui cadaveri dei morti per Covid. Infine, Caccamo e Rispoli ricordano la tardiva «richiesta di offerta» per kit e reagenti del commissario straordinario: «Risale al successivo 11 maggio, diversi mesi dopo la delibera dello stato di emergenza». Due settimane più tardi, l’interessato viene convocato per un’audizione dalla commissione Affari sociali di Montecitorio.
Perché, dunque, l’Italia non fa abbastanza tamponi? Soprattutto per «l’organizzazione dello Stato, sostanzialmente federalista, nella gestione della sanità» giura Arcuri. Già: quando c’è di mezzo il commissario, la colpa è sempre degli altri. n