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Guido Carli: «Caro Andreotti, risanare la finanza pubblica è impossibile»

Guido Carli: «Caro Andreotti,
 risanare 
la finanza 
pubblica 
è impossibile»

  • Panorama pubblica le lettere inedite delle dimissioni da ministro del Tesoro all’allora capo del governo. Con la motivazione, attuale come non mai, delle resistenze poste da politica e burocrazia a un serio miglioramento del bilancio dello Stato.
  • Il Recovery plan e il futuro dell’Italia

Pochi uomini possono vantare, sul piano nazionale e internazionale, un cursus honorum e un’influenza paragonabili a quelli di Guido Carli nelle vicende economiche italiane del dopoguerra. Scomparso a Spoleto il 23 aprile 1993, Carli ha percorso un itinerario lungo oltre 50 anni ai quadri di comando dell’economia italiana sia come rappresentante dell’imprenditoria privata e governatore di Bankitalia sia come servitore dello Stato. Senatore della Repubblica per la Democrazia cristiana, è stato ministro del Tesoro nel sesto e settimo governo Andreotti (22 luglio 1989 – 12 aprile 1991 e 12 aprile 1991 – 24 aprile 1992). Nello scorcio finale degli anni Ottanta, Carli è già una delle voci più ascoltate nel dibattito sui temi di politica economica interna e internazionale, ma pochi si attendono un suo ritorno «in prima linea» nell’esecutivo. Ecco perché la risposta positiva alla richiesta di Giulio Andreotti, che il 22 luglio 1989 gli offre il dicastero del Tesoro, viene accolta con una certa sorpresa.

Carli accetta la sfida, assai gravosa, del risanamento dei conti dello Stato negli anni cruciali dell’integrazione europea: un compito in cui si impegna con energia nonostante l’età non più giovane e un nemico di vecchia data, una fastidiosa asma, che non gli dà tregua. È un rientro che gli regala qualche soddisfazione (l’ingresso della lira nella banda stretta dello Sme, il Sistema monetario europeo) e più di un’amarezza: come le violente polemiche sulle privatizzazioni e le difficoltà incontrate nell’imporre il necessario rigore alle manovre di finanza pubblica. Lo si capisce anche dal contenuto delle due lettere di dimissioni – in entrambi i casi gestite e respinte da Andreotti – che Panorama pubblica in queste pagine. Le missive sono state ritrovate nell’archivio di famiglia dal nipote, Federico Carli, economista e presidente dell’Associazione di cultura economica e politica che porta il nome del nonno.


Guido Carli: «Caro Andreotti,
 risanare 
la finanza 
pubblica 
è impossibile»


La prima, inviata il 3 maggio 1991, evidenzia le «incrinature» aperte nel credito che fino ad allora l’Italia aveva fruito nei mercati internazionali. Carli cita «manifestazioni di volontà di grande autorevolezza di non dare attuazione alle parti qualificanti del programma di governo», riferendosi indirettamente al mancato sostegno del quadripartito alla linea di rigore nel risanamento economico. E aggiunge che «la ripetizione dei giudizi con i quali colleghi censurano» il suo operato hanno creato una «lesione profonda» alla compattezza di governo «senza la quale l’azione del ministro del Tesoro non avrebbe prospettive di riuscita. Soprattutto sul fronte del risanamento della finanza pubblica. La lettera senza data, inviata personalmente all’allora presidente del Consiglio, è ancora più sofferta e drammatica nei toni. Si tratta di un inedito assoluto e di grande importanza storica. Carli si definisce «al limite della sopravvivenza». Vuole farsi da parte, lasciando il posto a uomini più giovani per «mantenere l’Italia in posizione di dignità nel contesto della Comunità Europea. Di più non potrei dare». E conclude: «Ho deciso di dimettermi». Ma Andreotti non accetta l’uscita e le minacciate dimissioni provocano l’effetto di serrare le fila nella maggioranza di governo in vista del varo della manovra di rientro del deficit pubblico.

Carli resta così fino all’aprile 1992. Il suo posto al Tesoro verrà poi preso da Piero Barucci per più di due anni, fino all’insediamento del governo Amato. Le due lettere vanno dunque inserite nel contesto dell’epoca ma sono ancora estremamente attuali. Per la sensazione d’impotenza manifestata allora da Carli nel mettere sotto controllo la dinamica della spesa di fronte a circoli di interessi protetti da una burocrazia opaca e da una politica alimentata da meccanismi clientelari. Ma anche perché dopo la sua uscita arriva il governo guidato da Giuliano Amato che resta in carica dal giugno 1992 all’aprile 1993: fra i provvedimenti principali per il pareggio di bilancio si ricordano una manovra finanziaria da 100 mila miliardi di lire e il prelievo forzoso del sei per mille dai conti correnti delle banche italiane, nella notte di venerdì 10 luglio 1992. La patrimoniale. Il cui spettro torna ad aleggiare sull’Italia quasi trent’anni dopo.


Il recovery plan e il futuro dell’Italia

Un confronto tra gli anni in cui Guido Carli dovette operare da ministro e la situazione di oggi. Purtroppo i meccanismi non cambiano, quando si tratta di gestire bene la spesa pubblica.

di Federico Carli (presidente dell’Associazione Guido Carli)

Secondo un sondaggio condotto da Alessandra Ghisleri, il 62 per cento degli italiani non ha fiducia nella capacità del governo di utilizzare con efficienza e oculatezza i fondi europei per fronteggiare la crisi economica provocata dalla gestione dell’emergenza sanitaria. Questo scetticismo non sembra infondato. Dagli anni Settanta del secolo scorso assistiamo al progressivo deterioramento della qualità e alla costante espansione della spesa pubblica, che poco a poco si è trasformata in un fiume impetuoso le cui inesauribili sorgenti erano (e continuano a essere) alimentate non tanto dai responsabili formali delle casse dello Stato – i ministri del Tesoro – bensì da coloro i quali alla fine venivano irrorati da quell’acqua.

Quest’acqua sempre più abbondante (i soldi pubblici) era incanalata nel sistema drenando risorse ai privati attraverso l’inasprimento della pressione fiscale fino a livelli oppressivi e allargando irresponsabilmente i disavanzi e il debito dello Stato. Il circuito era perverso e immorale, poiché i fondi non venivano utilizzati per potenziare istruzione, ricerca, sanità, sicurezza, reti infrastrutturali, promuovere l’innovazione e migliorare la qualità dei servizi offerti ai cittadini, ma per ingrassare clientele e potentati locali. Rimanendo nella metafora idrica, l’acqua non era usata per annaffiare le piante lussureggianti che pure non sono mai mancate in Italia (centri di ricerca, patrimonio culturale e artistico, scuola, difesa, settori tecnologici d’avanguardia, etc…), ma per far prosperare le piante parassitarie (settori improduttivi, gruppi di pressione poco trasparenti e più in generale quella che potremmo definire «area della rendita») che hanno progressivamente tolto ossigeno fino a soffocare la parte sana del Paese. La qualità e l’andamento delle uscite statali segnalano il grado di vitalità della collettività nazionale, dunque le modalità di gestione dei fondi pubblici non hanno un significato soltanto economico ma eminentemente politico; esse rappresentano il termometro che misura lo stato di salute di una democrazia.

La sensazione d’impotenza circa la possibilità di mettere sotto controllo la dinamica della spesa, contrastando con successo l’ingordigia di alcuni circoli di interessi costituiti, protetti da una burocrazia opaca e da una classe politica imbelle, trent’anni fa spinse il ministro del Tesoro Guido Carli a scrivere due amare e dure lettere di dimissioni al presidente del Consiglio Giulio Andreotti. I due documenti – d’importanza storica – qui pubblicati danno la misura della gravità della situazione politica e amministrativa in cui versava e continua a versare lo Stato. E mostrano perché la sfiducia degli italiani circa la possibilità di impiegare con successo i fondi del Recovery plan fotografata da Alessandra Ghisleri non è priva di fondamento, bensì assolutamente giustificata. In oltre trent’anni ministri del Tesoro estremamente preparati e moralmente integri non sono riusciti a scalfire le incrostazioni che opprimono la pubblica amministrazione e a imprimere una svolta alla qualità della nostra spesa, nella direzione di maggiori investimenti e minori trasferimenti: possono riuscire oggi Giuseppe Conte e Roberto Gualtieri, laddove hanno fallito personalità del calibro di Emilio Colombo, Giovanni Goria, Guido Carli, Lamberto Dini, Carlo Azeglio Ciampi, Tommaso Padoa-Schioppa, Giulio Tremonti, solo per citarne alcuni?

Luigi Einaudi ci ha insegnato che non è possibile preparare i pasticci di lepre con i conigli: noi, in un contesto già di per sé difficile per uomini di primissimo ordine, negli ultimi anni, ci siamo adoperati con determinazione a sostituire le lepri con i conigli. È ora giunto il tempo di tornare a scegliere gli ingredienti giusti. Guardare con fiducia al futuro è doveroso. Sta in noi creare le condizioni affinché ciò sia possibile, coagulando attorno a un credibile progetto di rinnovamento le «forze vive» del Paese e orientando l’evoluzione del quadro politico verso un assetto favorevole all’emersione di uomini nuovi e qualificati, dotati del prestigio e dell’autorevolezza per scuotere l’Italia dal torpore che l’avvolge e ridare vitalità alla nostra democrazia.

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