In rapporto alla popolazione, l’isola caraibica ha il numero più elevato di reclusi, con altissime percentuali di oppositori politici. Il racconto di un ex magistrato rivela la drammatica situazione nelle oltre 200 prigioni del Paese.
«Solo perché amo Cuba la tirannia mi ha rinchiuso in una prigione orribile, una tomba sudicia e fredda». A parlare in una sorta di testamento politico è José Daniel Ferrer, il leader dell’Unione patriottica di Cuba, l’Unpacu, la maggiore organizzazione dei dissidenti sull’isola caraibica. «Grande è Zapata (Orlando Zapata Tamayo, muratore morto in carcere dopo 86 giorni di sciopero della fame contro la dittatura, ndr), lui non sarà mai dimenticato perché preferì morire che vivere umiliato. Quando mi uccideranno o morirò, sulla mia tomba voglio la mia bandiera, gladioli e rose bianche». Possibile che Cuba, agognata meta turistica per milioni di occidentali, molti dei quali italiani, si sia trasformata in un immenso e durissimo carcere? Più che possibile, è un fatto reale.
Se da un lato la spiaggia di Varadero con gli hotel superlusso gestiti dai generali vicini a Raúl Castro e dai suoi familiari è la cartolina che anche nel 2019 ha portato più di 4 milioni di turisti all’Avana, dall’altro ci sono oltre 200 carceri dove scontano la pena oltre 90.000 persone (100 mila per il New York Times, non certo tacciabile di essere un quotidiano di destra), in molti casi solo per reati d’opinione. Un’enormità se si pensa che all’epoca della dittatura di Fulgencio Batista, le carceri sull’isola caraibica erano 14.
Quanto a Ferrer, era già stato condannato a 25 anni di detenzione nel 2003 perché si batteva per la democrazia, i diritti fondamentali e l’amnistia per i dissidenti, ma era stato liberato dopo otto anni. Di totale «terrore costante», sia psicologico sia fisico, con torture che solo i carcerieri cubani sanno infliggere. Dal primo ottobre del 2019, però, lui insieme a una quarantina di altri attivisti di Unpacu è stato riarrestato dalla polizia politica del presidente Miguel Díaz-Canel, in teoria il nuovo che avanza, in pratica la marionetta di Raúl Castro che, di fatto, governa ancora con il pugno di ferro all’Avana.
Ferrer per settimane è stato dato per «desaparecido», scomparso, sino a quando a sua moglie è stata finalmente concessa una visita di cinque minuti. Ai suoi occhi si è manifestata una scena dell’orrore, con i segni delle torture ancora freschi sulla carne del marito. In quell’occasione José Daniel è però riuscito a trasmetterle il suo messaggio, eroico e al tempo stesso disperato.
Come eroico è il messaggio di Edel González Jiménez, l’ex presidente della magistratura provinciale di Cuba, il giudice supplente della Corte suprema dell’isola. Pochi conoscono il sistema giudiziario e penale cubano come lui, che per 17 anni ha appoggiato la «giustizia» del Partito comunista cubano (Pcc). «Ho molta paura del futuro, ogni giorno i cubani hanno più terrore. Non voglio sangue nelle strade di Cuba, non voglio queste prigioni. I diritti umani sono un tabù per il governo».
A metà gennaio Edel ha deciso di dire basta e insieme e Prisoners Defenders, l’associazione per la difesa dei diritti delle persone incarcerate, ha rivelato al mondo in conferenza stampa a Madrid i numeri reali del sistema carcerario castrista: 127.800 le persone condannate a Cuba, almeno 90 mila delle quali in prigione (e non 57 mila, come dice la dittatura). La popolazione dell’isola arriva a circa 12 milioni di abitanti. «Questi dati fanno di Cuba il Paese con il maggior numero di carcerati al mondo in rapporto alla popolazione» spiega Javier Larrondo, presidente di Prisoners Defender. «E, senza dubbio, è stato così per decenni. Il problema è che solo ora siamo stati in grado di dimostrarlo con documenti ufficiali».
Cifre alla mano, il «paradiso» socialista, dunque, e non gli Stati Uniti, è la nazione che ha il più alto tasso di carcerati del pianeta, quasi uno ogni 1.000 abitanti. In questo senso la testimonianza dell’ex giudice cubano di alto rango è preziosa. Dopo anni passati a condannare ingiustamente innocenti, adesso denuncia che nessun magistrato a Cuba ha il coraggio di parlare di diritti umani, altrimenti finisce nel mirino della polizia castrista. I processi politici, rivela Edel, erano «tutti truccati» e sono «in costante crescita» perché da quando, a causa della crisi in Venezuela, Cuba non ha più gli aiuti di Caracas, il regime ogni anno preferisce dare l’indulto a una media di 3.000 prigionieri comuni (quasi tutti condannati per furti per fame) per arrestare chiunque si batta a favore della democrazia e del multipartitismo, troppo destabilizzante per un potere sempre più barcollante.
Si demolisce così, a colpi di cifre, la narrativa «umanista» di quella che rimane la più antica dittatura delle Americhe, cui l’Unione europea continua a regalare centinaia di milioni in aiuti senza chiedere nulla in cambio sul fronte dei diritti umani, come denuncia Rosa María Payá, 31enne figlia di Oswaldo Payá, storico difensore dei valori cristiani e democratici a Cuba, quasi certamente ucciso dalla dittatura in un incidente d’auto, nel 2012. I dati di Prisoner Defenders si basano su una documentazione che il regime stesso ha inviato ai suoi diplomatici in giro per il mondo. E sono una fotografia lucida di quanto accade a Cuba dove anche esporre un cartello di protesta in Plaza de la Revolución garantisce una cosa sola: il carcere.
Per non parlare del divieto di viaggiare all’estero per chi è considerato dissidente. Come spiega Reinaldo Escobar, marito della blogger Yoani Sánchez e caporedattore del portale indipendente 14yMedio, «le persone vengono “regolate”, eufemismo del regime per dire che sono inserite per motivi politici in una lista nera e, quando arrivano alla dogana, sono bloccate». A lui è successo qualche giorno fa. Proprio dopo che, lo scorso 30 dicembre, la dittatura l’aveva arrestato senza motivo mentre usciva dalla redazione.
Con arresti e «regolazioni» sempre più numerose, si tenta di reprimere sul nascere ogni forma di pensiero indipendente e di protesta contro il monopolio comunista. Ma questa volta non è detto riesca nel suo intento e che la dittatura non finisca di colpo «nel sangue», come teme l’ex giudice castrista Edel. A causa dell’embargo di Trump e della crisi umanitaria che affligge il Venezuela, infatti, oggi i cubani sono tornati all’epoca del Periodo Speciale, quando crollò l’Urss. Oggi come allora la popolazione è di nuovo allo stremo, senza cibo e gas, dentro case che crollano. Parte dell’Avana vecchia sta letteralmente implodendo, senza che Díaz-Canel faccia né dica nulla. «Sembra una città bombardata» raccontano i parenti, disperati, di tre bambine, morte a gennaio per il crollo di un balcone. «Il governo ci ha offerto come rimborso l’equivalente di 15 dollari» denuncia il cugino di una delle vittime. «È una vergogna».
La rabbia aumenta nella capitale, nonostante la repressione. E aumenta nel resto dell’isola dove la crisi economica si sta mangiando persino la paura di denunciare. Oltre a Unpacu è nato così nelle ultime settimane il movimento giovanile Clandestinos che sta mettendo alle corde il regime con azioni dimostrative come cospargere di tinta rossa i simboli della rivoluzione, fare graffiti di protesta e affiggere manifesti contro la dittatura che affama il popolo. Agendo in forma anonima e sbeffeggiando il castrismo sui social, i «Clandestini» sono un ulteriore macigno sulla narrativa della rivoluzione che ha perso ormai ogni credibilità.
Da non dimenticare, poi, il lavoro importantissimo dell’associazione Foro antitotalitario unito del premio Sacharov per i diritti umani Coco Fariñas, un habitué del carcere Combinado del Est, arrestato per l’ennesima volta dal potere castrista lo scorso 4 febbraio solo perché chiedeva «pane e libertà» per i cubani.
