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La tempesta perfetta che spazzerà l’Italia da settembre

La tempesta perfetta che spazzerà l’Italia da settembre

Il governo, invece di reperire soldi con emissioni di titoli di Stato, preferisce portarsi in casa i controlli dell’Europa, optando per il Recovery fund e più avanti del Mes. Così, però, il Paese diventa ostaggio della Banca centrale europea (che sta drogando il nostro debito pubblico) e delle agenzie di rating.


Forse c’è da augurarsi che Giuseppe Conte, oltre a prorogare a piacere i capi dei servizi segreti e a campare sullo stato d’emergenza permanente, abolisca per decreto le commissioni parlamentari d’inchiesta. Perché la beffa di questo governo che corre a rotta di collo verso Recovery fund e Mes, legando l’Italia per un decennio ai diktat di Bruxelles e alla benevolenza della Bce di Francoforte, è che nella prossima legislatura qualcuno proporrà la solita commissione d’inchiesta per «scoprire» quello che già oggi è chiarissimo: basterebbero un paio di aste di titoli pubblici in più e i 36 miliardi del Fondo salva-Stati non servirebbero.

Ma Conte si è impegnato già a marzo a prendere quei soldi in prestito e a «incaprettare» l’Italia. Nella convinzione che questa cambiale che ha firmato, comunque, lo rinforzerà politicamente agli occhi delle istituzioni politiche europee e delle sue grigie burocrazie, diventando così il garante del Debitore Italia e, quindi, un intoccabile.

E poco importa se Conte, come Mario Monti, gli italiani non l’hanno mai votato. Sono i miracoli che accadono quando una nazione non solo non può più battere moneta, ma ha anche un ministro dell’Economia come Roberto Gualtieri che rinuncia a procurarsi liquidità emettendo titoli di Stato, perfino quando le condizioni di mercato sono incredibilmente favorevoli come adesso. L’economia italiana non riesce a ripartire e la disoccupazione è ferma solo perché il governo vieta i licenziamenti e paga gli stipendi al posto dei privati con la cassa integrazione.

L’autunno che ci aspetta è caldissimo, ma la situazione è assai diversa rispetto all’autunno del 2011, quando il governo di Silvio Berlusconi fu costretto a dimettersi. In quel novembre di nove anni fa lo spread sulla Germania aveva sfondato i 500 punti e il 65% del debito pubblico era in mano a banche e investitori istituzionali straniere, timorose di rimanere con il cerino in mano in caso di default e quindi «legittimate» a un’ingerirenza nella situazione politica italiana.

In quest’estate del post-quarantena, invece, nonostante il Pil in calo del 13%, lo spread galleggia tranquillo intorno a quota 150 punti e degli oltre 2.500 miliardi di debito pubblico (record storico) solo il 29% è detenuto all’estero. Non siamo quindi nelle mani degli stranieri, anche se i «giornaloni» fanno di tutto per farcelo credere, eppure sembra quasi che il duo ConteGualtieri ci voglia consegnare lo stesso.

Sicuramente siamo in mano alle agenzie di rating, perché se in autunno decidessero di tagliare di un altro gradino il nostro livello di affidabilità, i Btp diventerebbero «junk bond» e dovrebbero per forza uscire dai portafogli dei grandi fondi d’investimento e delle banche italiane, con un effetto a slavina di proporzioni incalcolabili. Ma non saranno l’accesso al Recovery fund e al Mes a placare Moody’s e Standard&Poor’s, che guardano essenzialmente a due condizioni: la capacità di uno Stato di fare le riforme e rilanciare il ciclo economico e la disponibilità di mamma Bce a comprarne i titoli pubblici sul mercato secondario.

Che una maggioranza debole e litigiosa – che al Senato si regge su pochi voti e sta portando il rapporto tra debito e Pil al 160% – non abbia a che fare con uno spread almeno a 300 punti può sembrare un paradosso, una benevola distrazione degli dei. Come se i mercati, sull’Italia, si fossero appisolati per il fatto che siamo sostanzialmente indebitati con noi stessi. E anche sempre più irrilevanti sul piano internazionale. Invece, la chiave della nostra (temporanea) tranquillità è custodita dietro le vetrate a specchio dell’Eurotower di Francoforte.

Anche dopo la fine dell’era di Mario Draghi, il governo italiano dovrebbe accendere un grande cero alla Bce e alla sua politica espansiva. La Banca centrale sta comprando Btp a quintalate (oltre 70 miliardi di euro dalla fine di marzo) ed è lei che ci tiene lo spread sulla Germania a 150 punti. Ma è una pace artificiale, questa sui mercati. E Gualtieri e Conte lo sanno bene, come lo sa anche il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco.

Le prossime riunioni di politica monetaria del board della Bce, guidato da Christine Lagarde, sono previste per il 23 settembre, il 7 ottobre e il 18 novembre. Sono tre date che al Tesoro e in via Nazionale hanno cerchiato in rosso. Perché a ogni meeting dei banchieri centrali, per l’Italia, ci sarà da stare con il fiato sospeso. Basterà che nel comunicato ufficiale della Bce compaiono due semplici paroline come «segnali di ripresa» e toccherà allacciarsi le cinture. Con la ripresa economica nell’Eurozona, gli acquisti di titoli pubblici da parte della Bce prima rallenteranno e poi si fermeranno. E lo spread dell’Italia schizzerà alle stelle, se non avremo agganciato la ripresa.

Un rilancio che al momento sembra improbabile, visto che nei prossimi mesi si teme la chiusura di 1,7 milioni di imprese sotto i 10 dipendenti (fonte: Cgia di Mestre) e che sindacati e Confindustria vedono un altro mezzo milione di posti di lavoro a rischio entro fine anno, dopo il mezzo milione già scomparso nei primi tre mesi della pandemia (fonte: Ocse).

Quando verrà meno il metadone di Francoforte, il governo italiano dovrà precipitarsi a chiedere l’accesso al Mes e il premier Conte, insieme all’euroentusiasta Gualtieri, blinderanno le proprie poltrone almeno fino alla fine della legislatura perché saranno coloro che firmano gli impegni con Ue e Bce. I garanti di una manovra autolesionista per tutti, ma non per loro.

È bastato ascoltare il tele-fervorino del sedicente avvocato del popolo, la mattina del 21 luglio, alla fine del Consiglio europeo di Bruxelles con il via libera al Recovery fund. «Avremo una grande responsabilità: con 209 miliardi abbiamo la possibilità di far ripartire l’Italia con forza e cambiare volto al Paese» ha detto Conte, non senza aggiungere che «il governo italiano è forte», perché «la verità è che l’approvazione di questo piano rafforza l’azione del governo italiano».

Certo, si è dimenticato di spiegare al popolo che questi soldi del Monopoli (in buona parte sono contributi europei che ci tornano indietro) li vedremo a partire dal 2021, ma una verità l’ha detta: firmare questo piano di prestiti e sovvenzioni rafforza il governo. Il suo, naturalmente. Il premier aveva un solo disegno per quest’estate: schivare il voto parlamentare sul Mes, che avrebbe innescato la balcanizzazione del Movimento Cinque stelle. Perché poi in autunno, o al massimo in inverno, l’accesso al Fondo salva-Stati verrà fatto digerire sulle ali della crisi economica che il governo non sta affrontando se non con misure tampone. E oltre al «quantitative easing» della Bce, l’altro motivo per il quale i mercati ci stanno facendo passare un’estate tranquilla è che sanno perfettamente che alla fine l’Italia ricorrerà ai prestiti decennali del Mes.

Per loro, ma anche per Bruxelles, fa fede l’impegno pubblico che Conte ha consegnato al Financial Times il 19 marzo scorso. «Il Meccanismo europeo di stabilità è stato creato durante un altro tipo di crisi (quella del 2008-2010, ndr)», ha osservato il premier, «e quindi deve essere adattato alle nuove circostanze in modo da poter utilizzare tutta la sua potenza di fuoco». Neppure tre settimane dopo l’elogio del Mes «potenza di fuoco», l’avvocato pugliese lo definiva a usi interni (tenere buoni i Cinque stelle, contrarissimi) «uno strumento inadeguato» e iniziava una commedia degli equivoci che però finirà nel giro di pochi mesi. Appena finiranno di somministrarci l’eurometadone.

Il decreto Agosto sta prolungando la cassa integrazione, che finora è costata oltre 5 miliardi di euro al mese e prosciuga tutta la flessibilità di bilancio che abbiamo faticosamente negoziato con Bruxelles. Nei mesi di marzo e aprile, il 51% delle imprese italiane ha usufruito della Cig-Covid per quasi il 40% dei dipendenti del settore privato, ovvero per almeno cinque milioni di italiani. Con i licenziamenti collettivi bloccati per decreto, l’altra faccia di questo «non-modo» di affrontare la crisi si chiama calo verticale della domanda interna. Quando un lavoratore su due è in cassa integrazione e l’altro guarda al futuro con una certa preoccupazione, nessuno ha voglia di consumare.

E un segnale già evidente di questo fenomeno si rintraccia in un dato che sembra positivo, ma che è solo un termometro della paura degli italiani. A giugno, come si legge nel Bollettino mensile di luglio dell’Abi, l’Associazione bancaria italiana, la raccolta bancaria da clientela (depositi in conto corrente, certificati di deposito, pronti contro termine) è aumentata di oltre 93 miliardi di euro rispetto a un anno prima (+6,1%). Una liquidità tenuta ferma per timore di perdere reddito e che a sua volta alimenta la crisi.

Insomma, come testimoniano l’aumento dei depositi e il successo delle aste di Bot e Btp già programmate prima del coronavirus, i soldi in Italia ci sono. Ma anziché chiederli a investitori e risparmiatori con programmi e riforme coerenti, il governo preferisce che la crisi esploda in inverno per poi chiederli all’Europa. Se non fosse un danno per quel che resta della sovranità nazionale, ci sarebbe quasi da battere le mani a un Conte che finalmente sente il bisogno di farsi legittimare da qualcuno. Mentre il Pd di Nicola Zingaretti, comprensibilmente, dopo un capolavoro del genere pensa di mandare Gualtieri a fare il sindaco di Roma. No, nessuno resterà indietro: loro per primi.

Paese fermo causa decreto

Come il fachiro Casimiro della canzoncina, anche il messia Giuseppi «lento lento, lemme lemme» ipnotizza la città. O, meglio, il Paese. Da mesi, in barba alla regnante burocrazia, il premier alterna le iperboli. La «poderosa manovra», la «potenza di fuoco», la «svolta storica». Giusto: il momento richiede lo scatto di un centometrista. Peccato: il suo esecutivo è il più elefantiaco di sempre. E, massimo disdoro dello stesso Giuseppe Conte, a certificarlo è l’Ufficio per il programma di governo istituito a Palazzo Chigi.

Avete presente i tambureggianti proclami e le òle mediatiche che seguono l’approvazione di una legge? Folclore. Perché, dopo il voto in Parlamento, a ogni norma servono ineludibili dettagli pratici. Dunque passa sotto le forche caudine ministeriali, che forniscono i necessari lumi. Insomma, servono i cosiddetti decreti attuativi. Altrimenti ogni comma rimane scritto sull’acqua. Proprio quello che accade alla stragrande maggioranza delle norme promulgate dai giallorossi. Su 431 decreti attuativi ne sono stati adottati solo 73: un miserrimo 17%. Ne mancano all’appello 358. E ben 142 sono già scaduti.

Così fan tutti? Affatto. A confronto, i governi precedenti sembrano degni eredi dell’infaticabile minatore sovietico, Aleksej Stachanov. Compreso il Conte I, nato dall’alleanza tra Lega e Cinque stelle: dei 351 provvedimenti, hanno visto la luce appena 165. Meno della metà. Pochini, certo. Ma, comunque, più del doppio di adesso. Continuando a ritroso, ecco la compagine guidata dal conte Paolo Gentiloni Silveri: 312 decreti attuativi emanati su 523, il 60%. Mentre, con Matteo Renzi al potere, si sfiora l’87%: 817 su 936. Ancora meglio, è andata a Enrico Letta: 314 su 325, quasi il 97%.

Certo, con il tempo magari gli arretrati si smaltiscono. Però, incrociando le date degli elenconi, nessun frangente era stato altrettanto magro. Ovviamente, nel caso di Giuseppi e i suoi, non può sfuggire l’imperdonabile aggravante: mai come oggi, ministeri e burocrati dovrebbero galoppare. Imprese sul lastrico, recessione epocale, emergenza sanitaria. È il momento in cui bisogna essere lesti e infaticabili. Invece, persino la valanga di leggi legate al coronavirus s’è impantanata.

A partire dal Cura Italia, approvato il 24 aprile 2020. Insomma, il primo dei poderosi interventi annunciati dal presidente del Consiglio. Eppure, nonostante siano trascorsi quasi quattro mesi, rimangono da mettere a punto 17 provvedimenti. Per esempio, i mutui a tasso zero per le imprese agricole. O i 50 milioni del «Fondo per le esigenze emergenziali» destinato a università ed enti di ricerca. Come saranno ripartiti? Chissà. Si brancola nelle tenebre anche per l’aiuto alle paritarie sull’apprendimento a distanza. Intanto le lezioni online sono terminate. E giacciono nel limbo sette decreti su 11 previsti nelle «Misure urgenti sulla regolare conclusione e l’ordinato avvio dell’anno scolastico e sullo svolgimento dell’esame di Stato». Terminato, nel frattempo, la prima settimana di luglio.

A onor del vero, i giallorossi però non fanno distinzioni. Si tentenna su tutto. Pure nel caso del rutilante provvedimento che avrebbe dovuto assicurare liquidità alle imprese. «Sono stati liberati 400 miliardi» gongola il premier il 6 aprile 2020. Qualche fellone, però, deve aver riacciuffato quella montagna di euro. Mai visti. E, comunque, mancano all’appello otto decreti attuativi. Come quello sui 200 miliardi di aiuti alle aziende. Bisognava stabilire le «modalità per il rilascio» delle garanzie a banche e istituti da parte di Sace, partecipata di Cassa depositi e prestiti nel ramo assicurativo. Criteri non ancora stabiliti.

Perfino più travagliata la strada del decreto Rilancio. Le tabelle di Palazzo Chigi sono impietose: 87 provvedimenti attesi e 73 da emanare. Nel mentre, per 20 i termini sono già scaduti. «Non abbiamo impiegato un minuto di più del necessario. Ci sono 25,6 miliardi solo a disposizione dei lavoratori» esulta Conte lo scorso maggio. «Dobbiamo fare in modo che le risorse economiche arrivino in maniera rapida, semplice e veloce». Difatti. «Abbiamo fatto un lavoro incredibile» si compiace il premier. Roberto Gualtieri, ministro dell’Economia, lo spalleggia: «Abbiamo approvato un decreto imponente con cui sosteniamo imprese, lavoratori e sistema sanitario. Ma gettiamo anche le basi per il futuro». Segue amaro ed eufemistico commento del presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, sulla complessità di un decreto lungo 266 pagine: «Conoscendo le tempistiche di esecuzione, possiamo immaginare quando questo avrà i suoi effetti…».

Già, quando? La ripartizione del fondo per il ristoro parziale dei Comuni, visto il crollo dell’imposta di soggiorno e del contributo di sbarco nelle isole, è scaduta il 18 giugno 2020. Chi l’ha vista? E, sempre restando in tema, si sono perse le tracce del fondo per «la promozione del turismo in Italia». Dov’è finito? Andato. Pure quello. Con la stagione estiva che, ormai, volge al termine. Così come, lo scorso 28 luglio, è finita in cavalleria la «definizione delle modalità e dei termini per l’ottenimento e l’erogazione del buono mobilità». Dai monopattini alle bici elettriche. E poi la garanzia statale per i crediti commerciali, i contributi alle imprese viticole, le detrazioni fiscali sul recupero del patrimonio edilizio, il credito d’imposta per adeguare i luoghi di lavoro al rischio di contagio, il finanziamento del trasporto locale e ferroviario.

Rinviati a data da destinarsi. Forse. Il dubbio assale. Perché, oltre a quelli legati al Covid, rimane incagliata nella burocrazia una poderosa mole di vecchi provvedimenti. Soltanto 105 riguardano la Legge di bilancio, varata alla fine 2019. Altri 27 si riferiscono, invece, al Milleproroghe. Nomen omen. Ma nello sterminato elenco degli inevasi c’è davvero di tutto. Dalla quanto mai opportuna riorganizzazione dei ministeri alla sicurezza cibernetica. Dal clima che cambia al terremoto del 2016 in Centro Italia. Dalle intercettazioni al gas naturale, il carbonio e l’efficienza energetica. Mortifero totale: l’83% dei provvedimenti giace nelle pastoie ministeriali. Ma adesso ci penserà l’ennesimo e salvifico decreto, rinominato Semplificazioni, a trasformare le strettoie in autostrade. «È la madre di ogni riforma» preannuncia Giuseppi. Approvata «salvo intese» lo scorso 7 luglio, dovrà diventare legge entro la metà di settembre. Urrà. A quel punto, resteranno soltanto altri cinquanta decreti attuativi da adottare.

Antonio Rossitto

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