Abbandonato l’abito scuro, il leader dei Cinque Stelle cambia stile. Meno palazzo, più piazza gli ha suggerito il fido addetto alla comunicazione Rocco Casalino. Ma il «new look» movimentista basterà a fermare l’emorragia di voti?
Leopoldo Fregoli, inventore del trasformismo teatrale, riusciva a interpretare oltre cento personaggi in un solo spettacolo. Giuseppe Conte, modestia a parte, ha saputo mutuarne le gesta in politica. Carriera breve ma intensissima, segnata da interpretazioni memorabili. Avvocato del popolo, premier di centrodestra, primo ministro di centrosinistra, farsesco Peppiniello Appulo e adesso ribaldo Masaniello di Volturara. Da cravatta e pochette a maniche di camicia e colletto sbottonato.
Ma il cambio d’abito alla Fregoli, che con i suoi 800 costumi e le 1.200 parrucche diceva di poter ricoprire la Tour Eiffel, è solo il compimento estetico dell’ultima metamorfosi. A Palazzo Chigi si prodigava in convenevoli e salamelecchi. Ora sbatte i pugni sul tavolo e s’infervora. Attacca gli alleati: «Non siamo una succursale del Pd!». Duella con il suo successore, Mario Draghi, sull’aumento delle spese militari per la guerra in Ucraina: «Pensi piuttosto alle famiglie». Sfida il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: «Non rinunciamo alle nostre posizioni».
Da far impallidire perfino il compianto Fregoli, che pure andava in scena inceronato. Ma perché l’ex premier dal baciamano perfetto s’è trasformato in un indiavolato arruffapopolo? La risposta più sintetica è in un verso di Fiorella Mannoia, in passato sua fervente ammiratrice: «Come si cambia, per non morire…». I tribolati otto mesi alla guida del Movimento hanno convinto il malconcio leader all’ultima, disperata, mossa. Indietro tutta. Dopo aver rimosso ogni feticcio pentastellato, urge riattaccarsi alle canagliesche origini. Pena la sparizione definitiva. I sondaggi sono sempre più terrificanti: quasi un terzo dei voti rispetto al 33 per cento raccolto nelle ultime, gloriose, politiche.
Si torna a battagliare, dunque. Anche a costo di uscire dal governo. Del resto il Masaniello di Volturara, borgo del Foggiano che gli ha dato i natali, negli ultimi mesi ha continuato a studiare le trionfali mosse di Giorgia Meloni, che dalle solitarie linee dell’opposizione ha portato i suoi Fratelli d’Italia a primeggiare in tutte le rilevazioni demoscopiche. Per evitare una fine ancor più ingloriosa non rimane che riesumare il vaffanculismo dei tempi andati. Depurato dagli improperi, ovvio. Bastian contrari si nasce, è vero. Ma con le inevitabili astuzie e gli opportuni suggerimenti, si può pure diventare. E qui rientra in gioco il fido Rocco Casalino. L’ex portavoce di Conte a Palazzo Chigi, da mesi in ambasce, è l’artefice della nuova strategia. Non è un caso se, con il trasferimento nella nuova sede, lo staff della comunicazione si sia allargato. Meno palazzo, più piazza. Anche virtuale. «Disegnare il futuro del Paese è cosa un po’ diversa dal soddisfare le piazze infotelematiche, dal collezionare like nella moderna agorà digitale» diceva da premier, in sprezzo a social e modernità. Adesso annuncia invece un appuntamento settimanale su Instagram: «Tornerò a farmi sentire qui, per parlare direttamente» promette dopo la sfuriata contro l’aumento delle spese militari.
Non si tratta di fare l’antiamericano. E neppure il malcelato putiniano. Del resto, durante i suoi governi, la spesa militare è aumentata ogni anno. È piuttosto il disperato tentativo di evitare l’eclissi, in tempi di strepitii. La speranza che francescanesimo e pacifismo servano a riacchiappare i milioni di voti persi: quelli di scontenti cronici, cospirazionisti planetari, odiatori seriali. Letta, leader del Pd, è l’Enrichetto con l’elmetto: sperticato atlantista ultradraghiano. Dunque, occorre fare l’esatto contrario dell’alleato. Anche a costo di risultare più farlocco di una banconota da un euro.
«Ma non lo vedete che sta recitando?» diceva ai suoi il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, dopo averlo visto in versione tarantolata. È lo studiato ritorno alle origini, come da nuovo copione. È il noi contro tutti. È un tardivo amarcord del fondatore, Beppe Grillo, che con le sue incontinenze aveva stregato un terzo degli italiani. Non a caso, è stato proprio l’Elevato, nelle scorse settimane, a lamentarsi della sua creatura, ormai irriconoscibile: appiattita, indefinita, ecumenica. A quel punto, anche Peppiniello Appulo, come lo chiama Dagospia, ha capito che serviva una sterzata, bruschissima. In assenza di migliori idee, la linea politica mutua allora quella del Fatto quotidiano di Marco Travaglio, il giornalista più ammirato, baluardo dei grillini delusi.
Niente armi, abbasso gli Usa, in guardia felloni. Sentimenti condivisi pure dal reprobo più noto, Alessandro Di Battista, tornato assiduamente nei talk show. I tre, già a fine febbraio, s’erano attovagliati in una trattoria al centro di Roma. E sia l’implacabile direttore che il Che Guevara di Roma nord avevano perorato il ritorno alle solitarie e ribalde origini. A costo di rompere definitivamente con il Pd.
Il «patto della Barchetta» lo chiamano adesso, dal nome del ristorante che ha ospitato il rendez-vous. Comunque sia: diabolico accordo o semplice rimpatriata, da quel momento Peppiniello è Masaniello. «E non è che l’inizio…» fanno notare compiaciuti i contiani devoti. Siamo già in piena campagna elettorale, insomma. Il neo capopopolo promette battaglia sulle misure economiche: «Il governo dovrà ascoltarci». Contesta la linea di Letta sullo stop al gas russo: «Oltre ai tweet serve la soluzione e la proposta: Energy Recovery Fund, con dentro tutti, Germania e Olanda comprese». Apre persino al proporzionale: «È la soluzione migliore». Quella che gli garantirebbe mani libere dall’alleato. Con i migliori saluti al patto giallorosso.
Del resto vi immaginate, tanto per fare un esempio, la spartizione dei collegi uninominali che imporrebbe il maggioritario? Da escludere. Il leader pentastellato deve piuttosto cercare di evitare la marginalità. E alla svelta, pure. Vorrebbe cambiare un finale che sembra già scritto. Non può passare ancora come un ascaro del Nazareno. E le ipotesi di larghe intese post elettorali, nel nome del suo usurpatore Draghi, sono da escludere. Nessuna pace con Letta. Anzi, serve aumentare le distanze e rimarcare le differenze. Non è più tempo di coalizioni forzose. Ognuno va per sé. Poi si vedrà. Un conto sono le Amministrative: dove le convergenze restano possibili, anzi auspicabili vista l’irrilevanza dei Cinque stelle nelle tornate locali. Un altro sono però le Politiche: le lampanti mancanze potrebbero venir offuscate dal voto anti sistema.
Bisogna dunque urlare la ritrovata, quanto posticcia, unicità. E se il povero Enrichetto implora di «non inseguire i sondaggi», il Masaniello di Volturara compulsa ossessivamente i nuovi dati demoscopici, a caccia di un decimale in più. Dopo anni di inesorabile decrescita, sarebbe un trionfo. Quindi, basta coscienziosità governativa e spazio alle articolate critiche che piacciono a sinistra e Cgil. Un modo per marcare distanza dal ministro degli Esteri ed ex leader pentastellato, Luigi Di Maio. I due non si sono mai amati, a dispetto delle insincere dichiarazioni di stima. La disfida sul Quirinale ha però trasformato Giggino nel manifesto nemico giurato. E adesso il suo super atlantismo diventa il perfetto contraltare allo scetticismo bellico. A rimarcare ulteriore distanza dal più temibile contendente.
Insomma, il messaggio sembra chiaro. Conte è l’auspicata palingenesi, mentre Di Maio rappresenta la degenerazione poltronistica. Lui in maniche di camicia, scomposto come il messia Beppe. L’altro in grisaglia, inossidabile come un piccolo Forlani: stringe mani e fa l’amicone degli opposti. Tutti i maggiorenti dem ne sottolineano coerenza e serietà. A partire da Letta: «Di lui ci si può fidare». Similes cum similibus congregantur. Ma Conte vuole marcare distanza. È stato un premier per caso. Storia da film. Anzi, da serie televisiva: quella che racconta l’ascesa politica di un mite professore, interpretato dal futuro presidente ucraino Volodymyr Zelensky, nel Servitore del popolo.
Ora però, lascia intendere, può tornare l’impavido degli esordi. Cittadino tra i cittadini. Bisogna riavvicinarsi alla base, riconquistare gli attivisti, andare nelle piazze. Verrà organizzata una kermesse nazionale. Magari un bel tour, come ai vecchi tempi. E si torna a parlare perfino di un argomento poi divorato dagli irrefrenabili impulsi della casta: le restituzioni. «Abbiamo appena devoluto 2,7 milioni di euro a varie associazioni impegnate su emergenze economiche e sociali» comunica il Masaniello di Volturara. Rinnegare i recenti trascorsi. Sostituirli con il trapassato remoto. Riuscirà un ex azzimato premier in pochette a passare per epigono del pescivendolo con il cappello rosso che fece insorgere i napoletani? Nonostante lo smisurato talento da trasformista, sarà arduo. Intanto, il Fregoli della politica ha già eguagliato Franceschiello, nomignolo affibbiato all’ultimo Re delle due Sicilie, che al suo sconclusionato esercito ordinava: «Facite ’a faccia feroce».
