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La manovra di Conte ci renderà poveri e ci metterà in «svendita»

La manovra di Conte ci renderà poveri e ci metterà in «svendita»

  • MANOVRA – L’ultima zavorra economica simile a quella in preparazione risale al lontano 1920. Un onere che ci renderà sempre più schiavi dei mercati finanziari e frenerà la crescita.
  • ITALIA SOTTO ATTACCO – Il Paese diventerà terreno di conquista per i capitali stranieri a caccia di affari.

È una guerra. E come tutte le guerre, la lotta contro il Covid-19 ci lascerà in eredità molti lutti e tantissimo debito pubblico. Una montagna di debito: 66 mila miliardi di dollari per le 39 maggiori economie del mondo, ha calcolato il Fondo monetario internazionale. È la virus-economy: in media, per effetto combinato di recessione e spese per sanità, imprese e famiglie, il peso del debito pubblico sul Pil dei Paesi più avanzati salirà al 122 per cento mentre il deficit schizzerà all’11 per cento. Valori giganteschi, mai visti dai tempi della Seconda guerra mondiale, che lasceranno una traccia profonda per molti anni. Soprattutto per chi, come l’Italia, affronta questa guerra appesantita da una grande zavorra: alla fine del 2019 il debito pubblico nell’area euro era pari all’84 per cento mentre nel nostro Paese viaggiava oltre il 134 per cento. E ora, dopo la manovra monstre varata dal governo Conte per dare ossigeno all’economia e al sistema sanitario, il debito pubblico italiano raggiungerà livelli mai visti da un secolo: secondo le previsioni del ministero dell’Economia, la recessione, il calo delle entrate fiscali e l’aumento della spesa per gli interventi urgenti faranno salire il debito al 155,7 per cento del Pil. Ovvero quasi 2.600 miliardi di euro. Ovvero 43.100 euro per ogni italiano, bambini compresi.

L’Italia ha sperimentato un debito così alto, in rapporto al Pil, esattamente 100 anni fa, nel 1920, quando sfiorò il 160 per cento. Poi ridiscese e neppure nel corso della Seconda guerra mondiale arrivò a tali vette, fermandosi intorno al 100 per cento. L’inflazione successiva al conflitto fece abbassare il peso del debito che per tutti gli anni Sessanta restò sotto il 35 per cento. Quindi iniziò la sua progressiva salita fino al 120 per cento del Pil nel 1994. La politica di avvicinamento all’euro fece scendere il debito al 100 per cento del Pil ma la crisi del 2008 lo respinse oltre quota 130.

Un alto debito pubblico provoca molti problemi: come ricorda Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio dei conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano nel libro Il macigno, ci rende schiavi dei mercati finanziari: «Qualsiasi shock che può colpire l’economia europea o mondiale avrà su di noi un effetto ingigantito per colpa del debito più alto». Se una grande fetta di questo debito è nelle mani delle banche (in Italia è il 20 per cento circa) un aumento dei tassi si riflette immediatamente sul patrimonio degli istituti di credito, mettendoli sotto il tiro degli investitori.

Un elevato debito inoltre frena la crescita, perché lo Stato fa più fatica a ridurre la tasse o aumentare gli investimenti dovendo mantenere sotto controllo il deficit di bilancio: uno studio del Fmi sostiene che un Paese con un debito del 120 per cento del Pil tenderà ad avere una crescita potenziale più bassa dell’un per cento rispetto a un Paese con un debito del 60 per cento. «Non è poco» sottolinea Cottarelli nel suo libro: «Vuol dire che dopo 20 anni si sarà creato un differenziale nel livello del Pil pari al 22 per cento». La prima domanda dunque che dovremmo porci è se un debito del 150 per cento del Pil è sostenibile. «Dipende da come è finanziato», risponde Fedele De Novellis, economista di Ref Ricerche. «Se lo Stato riesce a collocare titoli a lungo termine a tassi bassi e non si creano altri shock, il problema non si pone». Anche Cottarelli non vede grandi pericoli nell’immediato: «Dal 2014 al 2018 la quota di debito italiano detenuta dai mercati è scesa dal 128 al 112 per cento del Pil, mentre la parte in mano alla Bce è salita e potrebbe raggiungere il 25 per cento entro quest’anno. Fino a quando la percentuale in mano alla Banca centrale è così elevata i rischi sono ridotti».

Nell’ultimo report dell’agenzia di credito Moody’s sull’Italia si legge che «l’affidabilità creditizia dovrebbe rimanere sostanzialmente inalterata data la natura temporanea della recessione e i continui bassi costi di finanziamento» grazie agli acquisti della Bce. Moody’s stima che il debito italiano si stabilizzi al 150 per cento del Pil, ma una ripresa ritardata o uno shock potenziale «potrebbe spingere la traiettoria del debito verso livelli significativamente più alti». È evidente che, passata l’emergenza virus, l’Italia dovrà ridurre il suo debito, lontanissimo dal parametro europeo del 60 per cento del Pil. Un’operazione difficile, visto che la spesa sanitaria dovrà aumentare e quella pensionistica non si può toccare. In più, avverte Cottarelli, c’è il rischio che il forte aumento del deficit ci faccia dimenticare i vincoli di bilancio, riducendo gli incentivi all’efficienza economica.

Come ne usciremo allora? Con nuove tasse? Con una mega patrimoniale? Tornando alla lira? Quest’ultima soluzione è la più pericolosa, non solo per il ritorno dell’inflazione: uno dei pochi studi che esamina gli effetti di un abbandono dell’euro, realizzato dalla banca svizzera Ubs, stimava un crollo del Pil dal 20 al 50 per cento a seconda della solidità dell’economia (e noi non siamo tra i più forti). E anche aumentare la pressione fiscale non sarà semplice: la gente non vuol sentire più parlare di austerity. «L’unica via per ridurre il debito è la crescita» dice Cottarelli. «Se Pil e inflazione viaggiano a ritmi superiori ai tassi di interesse, il debito scende. Inoltre le entrate dello Stato migliorano e migliora anche il saldo primario, se non viene speso o usato per ridurre le tasse». È quello che è successo in Europa dopo la crisi dell’euro: in Germania, per esempio, il debito è passato dall’81 per cento del 2012 al 60 del 2019; in Spagna si è ridotto di 5 punti dal 2014, in Portogallo di 16 punti. Sulla spinta di economie che sono cresciute a ritmi medi dell’1,5-2 per cento. L’Italia invece è cresciuta poco e il suo debito è rimasto sostanzialmente stabile. «Colpa di una serie di provvedimenti dal sapore elettorale» commenta De Novellis di Res Ricerche. «Dagli 80 euro di Matteo Renzi all’eliminazione della tassa sulla prima casa fino a Quota 100 e al reddito di cittadinanza. Miliardi di euro tolti al risanamento dei conti pubblici e agli investimenti». La verità è che i nostri partiti, qualsiasi siano i loro colori, sembrano incapaci di intraprendere le soluzioni introdotte da altri Paesi per dare un maggiore sprint all’economia. A ogni elezione si promette sempre di più ai danni dei conti pubblici, fino a quando si arriva sul bordo del precipizio e allora si chiama il tecnico di turno; ora è in voga Mario Draghi, costretto ad aumentare in fretta e furia le tasse. «Ma è inutile prendersela con la classe politica» ribatte Cottarelli «è la pubblica opinione che non ritiene abbastanza importanti i provvedimenti che servirebbero al Paese». Non ci sarebbe bisogno di altra austerità, ma di tagliare drasticamente la burocrazia, di far funzionare meglio la giustizia civile, di digitalizzare le imprese, di investire nelle infrastrutture.

Scrivono, per esempio, gli economisti Andrea e Rony Hamaui sul sito LaVoce.info: «Bisogna cogliere l’opportunità per varare un grande piano che rilanci la produttività del Paese e riduca il gap infrastrutturale dell’Italia. È giunto il momento di scelte coraggiose che favoriscano l’interesse generale a costo di sacrificare interessi di parte. Da questo punto di vista non giova emanare un decreto ogni mese che finisce per assecondare le diverse lobby: è più costruttivo delineare, come ha fatto la Germania, un piano ben articolato che tranquillizzi i cittadini e i mercati». Riforme, scelte coraggiose, un grande piano… Parole che abbiamo sentito tante volte e che si sono perse nel vento. Sarà la più grave recessione dal Dopoguerra a cambiare finalmente gli italiani e chi li governa? Speriamo, ma alzi la mano chi ci crede.

ITALIA SOTTO ATTACCO DEGLI AVVOLTOI

Il Paese è più che mai terreno di conquista per i capitali stranieri a caccia di affari. Ecco come banche e aziende, hotel e brand di moda diventano bocconi ghiotti per chi si prepara a sfruttare la crisi di liquidità post-coronavirus.

di Carlo Cambi

I giorni degli avvoltoi. Non è un nuovo thriller con contorni di agenti segreti, anche se le «barbe finte» sono già in scena, ma l’effetto collaterale del Covid-19 che sta infettando la nostra economia. S’aggirano per banche e aziende, per alberghi e ville venete, per poderi e palazzi i predatori della liquidità perduta. Sono i gruppi finanziari che stanno cercando di banchettare sulle spoglie dei nostri settori in crisi.

Ci sono speculazioni goffe e rozze come quella del viennese che vuole comprarsi la villa a Pienza, la città ideale del Rinascimento toscano, con il 55 per cento di sconto perché «ormai siete in default», l’agente immobiliare che risponde «no grazie» e aggiunge «sui cadaveri dei leoni festeggiano i cani, ma i leoni restano leoni e i cani cani» e ci sono i giochi raffinatissimi di chi vuole mettere le mani sul risparmio gestito. È un Monopoli molto pericoloso: la posta in gioco è il futuro dell’Italia. Lo sa anche il governo che ha rafforzato il golden power su alcuni gioielli di famiglia. Soprattutto la Francia ha messo nel mirino Leonardo e tutto il comparto difesa, mentre Russia e Cina provano l’assalto all’Eni e la Germania ha appetiti sulle banche. Deutsche Bank, guidata in una difficile opera di salvataggio dall’ amministratore delegato Christian Sewing, ha sì in pancia, come Commerz Bank che ha cominciato a svenderli, tanti Btp nostrani, ma ha anche tantissimo risparmio raccolto nel nostro Paese. L’allarme lo ha dato il Copasir, il comitato parlamentare di vigilanza sui servizi segreti. Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia e vicepresidente del Copasir, parlando con La Verità è stato esplicito: «L’Italia è sotto attacco. Fin dal 2018 i Servizi ci hanno avvertito che la speculazione sta cercando di mettere le mani sul nostro patrimonio. Mi sono allertato quando ho letto nel Cura Italia (il primo decreto per contrastare gli effetti del Covid, ndr) di una deroga agli appalti informatici. Per fortuna il governo lo ha emendato. Ma ora il fronte è molto vasto. Dobbiamo occuparci dei fondi sovrani, e sono preoccupato soprattutto da Deutsche Bank che già determinò la crisi greca. Dobbiamo essere certi che i principali istituti bancari del Paese in questo momento finanzino il nostro sistema imprenditoriale e non quello di altri Paesi».

Perciò il deputato della Lega Raffaele Volpi, che del Copasir è presidente, ha fatto sfilare davanti al Comitato i vertici di tutte le banche: da Unicredit a Ubi, passando per Mps e Crédit Agricole. La prima audizione è stata però con Paolo Savona, il presidente della Consob – la commissione di vigilanza sulla Borsa – che già aveva segnalato un fattore critico. Borsa italiana è di proprietà del London stock exchange e dopo la Brexit si teme che s’inducano le società ad abbandonare Milano per farsi quotare altrove.

In questo gioco di opportunità potrebbero nascondersi gli avvoltoi pronti ad acquisire le nostre società. I francesi sono i più attivi su questo fronte, sostenuti da Emmanuel Macron, anche perché dei circa 430 miliardi di debito pubblico italiano detenuto all’estero Bnp Paribas ne ha per 143 miliardi e Crédit Agricole per 97. Stanno cercando di riconvertire i Btp, vendendoli, in azioni di aziende soprattutto finanziarie italiane. Con un doppio danno: sale lo spread, s’impoverisce il capitale nazionale.

I francesi per ora stanno puntando sul risparmio gestito, anche se hanno nel mirino il made in Italy agroalimentare e le cantine, in particolare in Toscana, Piemonte e Sicilia. Crédit Agricole attraverso Amundi – guidato da Cinzia Tagliabue arrivata da Pioneer dopo l’acquisizione da parte di CA della società di gestione già di Unicredit – vuole acquistare Anima; il nuovo ceo di quest’ultima, Alessandro Melzi d’Eril, sta comunque rafforzando la Sgr tutta italiana di cui sono soci Poste con il 10 per cento e anche Bpm, che pure ha una partecipazione incrociata in Agos Ducato con Crédit Agricole. Che l’affare sia in vista lo confermerebbero gli andamenti di Borsa con Anima Holding che continua a guadagnare con un rally di oltre il 15 per cento. Altri appetiti si appuntano sull’immobiliare. Elena Donazzan, Fratelli d’Italia, assessore regionale al Lavoro del Veneto e responsabile nazionale lavoro è preoccupata: «Le nostre ville venete, Patrimonio mondiale dell’umanità, rischiano di essere depredate da qualche fondo o da qualche potentato straniero».

A muoversi sono gli arabi. Ci sono imprenditori veneti che tra vendere l’azienda o la villa lasciano il gioiello del Palladio agli sceicchi. È lo stesso assalto portato agli alberghi. Secondo Bernabò Bocca, presidente di Federalberghi, «se va avanti così c’è il rischio di perdere metà delle nostre strutture». Circa il 40 per cento degli hotel italiani non è di proprietà di chi li gestisce. Ora con il lockdown molti gestori non sono più in grado di pagare gli affitti e cominciano le offerte predatorie. I proprietari degli immobili svenderanno.

Il prefetto di Rimini Alessandro Camporota ha detto chiaro e tondo: qui tra cinesi e mafia c’è il rischio che si comprino tutto. È noto che ci sono intermediari cinesi che girano la Romagna alla ricerca di albergatori in difficoltà, stretti tra mutui da pagare e incassi azzerati. Il senatore pentastellato Mario Giarrusso ha già presentato al governo un emendamento alla legge antiriciclaggio per far sì che «vengano segnalate alle autorità da parte di agenti immobiliari e notai tutte le compravendite nel settore alberghiero e turistico ricettivo».

È comunque tutto l’immobiliare a essere a rischio. Secondo Luca Dondi, dell’Osservatorio su questo settore di Nomisma, avremo 20 miliardi di transazioni in meno. I prezzi sono già in picchiata del 10 per cento, ma scenderanno ancora.

Intanto gli avvoltoi si sono già mossi verso una filiera in crisi come quella della moda – secondo quanto segnalato da Ovs, Coin e altri 50 brand riuniti in Federdistribuzione – un comparto che vale 110 miliardi. I cinesi, ancora loro, vogliono infatti il Centergross di Funo di Argelato, il più importante polo di terzisti della moda vicino a Bologna, dove restano invendute le collezioni primavera-estate. Questi acquirenti non solo pretendono di comprare gli stock al 10 per cento, ma puntano direttamente a brand e aziende. Lo stesso succede a Carpi con la maglieria.

Carlo Pelanda, economista di vaglia, mette in guardia. Ad Affari italiani ha dichiarato che «in Italia la lobby pro-Cina è sempre più attiva e pure la Chiesa sta conducendo una fitta attività diplomatica con Pechino, ma bisogna stare molto attenti; se si esce dall’orbita di Washington sono guai seri». A quel punto diventare prede degli avvoltoi di turno sarebbe anche più facile.

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