Per capire gli sviluppi della guerra in Etiopia, Panorama ha intervistato Lino Bordin. Per 28 anni funzionario Onu, ha appena pubblicato per Sandro Teti editore il libro Il signore gentile in cui narra la sua lunga campagna d’Africa.

«Non possiamo chiudere gli occhi dicendo che è l’ennesima guerra in Africa. Se non lo fermiamo, il conflitto in Etiopia sarà presto anche un problema nostro». Lino Bordin, 20 anni di esperienza in Africa come funzionario Onu, è molto preoccupato per gli sviluppi della guerra scoppiata nel Corno d’Africa 20 giorni fa. Nato a Pianiga, provincia di Venezia, ha lavorato per 28 anni all’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite. E ha da poco pubblicato il libro Il signore gentile, Sandro Teti editore, 300 pagine, in cui narra la sua lunga campagna d’Africa. «Ho fatto due anni e mezzo di Somalia. Poi ho lavorato con Nelson Mandela in Sudafrica, dopo di che ho fatto l’indipendenza della Namibia, la democratizzazione in Sudafrica, la guerra in Angola, il genocidio in Ruanda, la guerra del Congo» racconta. «Ma ho lavorato pure in Irak con i rifugiati curdi». Ma Bordin conosce bene anche l’Etiopia. Panorama l’ha intervistato per capire qualcosa sulla guerra scoppiata lo scorso 4 novembre nel Paese del Corno d’Africa.
Può spiegare per sommi capi che cosa sta succedendo in Etiopia?
«Mi pare abbastanza semplice: c’è una regione nel Nord dell’Etiopia, il Tigray (o Tigré), che sta chiedendo autonomia al governo di Addis Abeba. Autonomia che il governo centrale dell’Etiopia, sulla carta uno Stato federale, non ha nessuna intenzione di concedere. Al punto che Addis Abeba ha risposto in maniera molto violenta, con un’offensiva militare, agli attacchi lanciati contro i militari federali dal Fronte popolare di liberazione del Tigray, al potere nella regione che rivendica l’autonomia. E Addis Abeba si appoggia all’aeroporto di Asmara, la capitale dell’Eritrea».
Paese che due anni fa ha siglato uno storico accordo di pace proprio con l’Etiopia.
«Esattamente. Tale accordo nel 2019 è valso il premio Nobel per la pace al primo ministro etiope Abiy Ahmed».
Ma il 15 novembre i tigrini hanno lanciato razzi contro l’aeroporto di Asmara.
«È vero. Il presidente del Fronte popolare di liberazione del Tigray, Debretsion Gebremichael, ha rivendicato il lancio, spiegando che “anche le forze etiopi stanno utilizzando l’aeroporto di Asmara” per far decollare i mezzi usati nei raid contro la regione del Tigray, e quindi lo scalo è un “obiettivo legittimo”».
Ufficialmente l’Eritrea nega ogni coinvolgimento.
«Certo è che il regime eritreo è tradizionalmente ostile al governo regionale del Tigray. E l’Eritrea ha l’aeroporto internazionale molto vicino al Tigray. Varie fonti hanno evidenziato la presenza di militari etiopici in territorio eritreo e il sostegno delle Eritrean Defence Forces alle operazioni militari del governo federale di Addis Abeba. Secondo quanto mi risulta, gli aerei etiopici fanno base ad Asmara e da lì vanno a bombardare il Tigray. Una regione a noi italiani peraltro molto vicina perché è quella in cui si trova Adua, la città in cui nel 1896 si combattè la battaglia culminante della guerra di Abissinia fra le forze italiane e l’esercito abissino del Negus Menelik II».
Uno spaventoso massacro…
«Già, dovremmo ricordarle bene queste cose. Peraltro, il conflitto attuale dà fastidio anche a un altro Paese limitrofo, che è Gibuti. Perché purtroppo questa guerra sta sempre più prendendo piede, espandendosi oltre i confini nazionali».
Quindi il conflitto rischia di diventare regionale?
«Sì. Anche perché sappiamo bene com’è delicata la situazione socio-economico e politica del Corno d’Africa. E questa piccola guerra interna può avere ripercussioni molto importanti anche nei Paesi limitrofi. Pensiamo anche alla Somalia, con tutto quello che sta succedendo».
Potremmo fare una sorta di analogia con l’ex Jugoslavia? Anche l’Etiopia è composta da varie etnie…
«Se ne calcolano un’ottantina, ma le più importanti sono 10. Anche per questo motivo il governo centrale di Addis Abeba vuole scongiurare la secessione. Essendo il Paese composto da molte etnie, tutte molto diverse, con costumi e talora anche religioni diverse fra loro, se tutti chiedessero l’autonomia, com’è successo nell’ex Jugoslavia, a questo punto l’Etiopia salterebbe in aria. Rischierebbe di deflagrare in mille pezzi».
Quindi si può sintetizzare dicendo che quello in corso è uno scontro fra il federalismo del leader tigrino Gebremichael e il centralismo di Abyi Ahmed?
«Sì. In effetti tutto è iniziato così».
Ma è vero che, fino a prima dell’andata al potere di Abyi Ahmed, il Fronte popolare di liberazione del Tigray era il padrone di Addis Abeba?
«Sicuramente dopo la caduta del regime marxista di Menghistu Hailè Mariam, il Fronte popolare ha ricoperto un ruolo importante nella politica nazionale dell’Etiopia».
Quindi l’andata al potere di Abyi Ahmed ha rotto un vecchio equilibrio, portando maggiore centralismo?
«Questo è vero, anche se comunque l’Etiopia è sempre stata centralista».
A suo avviso, perciò, le rivendicazioni del Tigray hanno un senso?
«Non sono completamente infondate. Ma, anche lì, dipende da come vengono fatte valere. È come se adesso il Veneto volesse diventare indipendente e imbracciasse le armi…»
Intende dire che una rivendicazione che potrebbe essere legittima, nel momento in cui diventa armata travalica il suo senso?
«Esatto, esatto. Senza contare che rischia di mettere a repentaglio tutto l’equilibrio del Corno d’Africa. Ci sono già tantissimi rifugiati: si parla di decine di migliaia di persone che si sono riversate in Sudan. Peraltro, anche il Sud Sudan è una zona pericolosa e in continuo fermento».
Quindi il Corno d’Africa è una specie di polveriera, che potrebbe saltare in aria in qualsiasi momento?
«Eh sì. Se per esempio i tigrini cominciassero ad avere rivendicazioni anche sull’Eritrea perché sta aiutando l’Etiopia, allora la cosa si allargherebbe decisamente. Poi c’è il ruolo di al Shabab, la grossa organizzazione terrorista somala che ha infiltrazioni un po’ da tutte le parti nella regione: dal Kenya al Sudan all’Etiopia stessa. In particolare nell’Ogaden, la cosiddetta regione dei somali. Bisogna stare attenti. E le nazioni occidentali dovrebbero fare di più a livello diplomatico».
In base alla sua ventennale esperienza, come pensa possa essere scongiurata quest’ennesima crisi africana?
«Attraverso il dialogo. Occorre parlare il più possibile con i leader locali, magari fornendo anche qualche aiuto in termini di progetti e programmi. Insomma, bisogna cercare di quietarli, in qualche misura. Perché se le guerre scoppiano ci rimettiamo tutti. Anche noi».
Intende dire che questa guerra riguarda da vicino anche noi?
«Certo. Anche solo in termini di numero di migranti in arrivo: se la regione esplodesse, il flusso potrebbe aumentare. Abbiamo sotto gli occhi l’esempio della Turchia, che ha 4 milioni di rifugiati dalla Siria. Se non vogliamo diventare una nuova Turchia, dobbiamo intervenire per tempo».
