Parola di Iginio Straffi, creatore delle fatine Winx e produttore cinematografico, che conosce bene la città-Stato e la Corea del Sud. «Il lockdown va modulato secondo i contagi, solo così si può ripartire come in Asia». C’è però un problema: l’esperienza
di chi governa queste situazioni. «E non possiamo aspettare la manna dal cielo».
Oltre. Oltre il virus, oltre il lockdown, oltre le elemosine di Stato, oltre la paura di non farcela. Forse non oltre le mascherine. «Quelle dovremo abituarci a portarle». Ma per guardare oltre la tragedia bisogna cominciare a fare i conti con gli errori commessi in due mesi terribili e unici nella vita del nostro Paese. «Abbiamo sbagliato a non considerare le esperienze altrui, invece di prendere esempio da Singapore e Corea del Sud abbiamo ballato sul Titanic». A parlare è Iginio Straffi, imprenditore con il turbo, a 54 anni il Walt Disney italiano, presidente di Rainbow, papà delle fatine Winx, produttore cinematografico con studios in Italia e in Canada, partner di Netflix. Soprattutto un uomo che ha guardato il coronavirus da vicino mentre usciva dalla Cina. Sua moglie Joanne Lee, vicepresidente della società, è di Singapore. Casa lì, uffici lì, trampolino per il mercato asiatico e cinese lì. Due modi diversi di affrontare l’emergenza e di prepararsi al dopo. Un confronto impietoso.
Straffi, in che modo Singapore e Corea hanno combattuto il virus?
«A gennaio ero lì. Quando è arrivato hanno stilato un protocollo immediato per sanitari e medici, è partita la campagna di misurazione della febbre per tutti. Chi aveva anche solo un sintomo come tosse o febbre veniva messo in quarantena in alberghi,
in edifici idonei. E tutti i suoi contatti venivano sottoposti a tamponi».
Da noi hanno cominciato a fare i tamponi a chi non riesce a respirare… Singapore ha sei milioni di abitanti, l’Italia dieci volte di più.
«Ma la densità asiatica è venti volte superiore a quella della Lombardia. Loro non hanno chiuso nulla, non sanno cosa sia il lockdown. Eppure sono stati contagiati dai cinesi di Wuhan che erano scesi a festeggiare il capodanno. Tre settimane dopo non avevano più nuovi casi. Adesso il virus sta ripartendo».
Per quale motivo?
«I rientri. Su 80 persone tornate da Londra, 60 erano positive e alcune asintomatiche. Questo ci può essere d’insegnamento: i controlli all’arrivo devono continuare anche dopo. Oggi se vai a Singapore fai la quarantena in albergo. Loro non cambiano idea sulle strategie. In Italia vedo incertezze incomprensibili».
Dove stiamo sbagliando rispetto ai Paesi asiatici?
«Abbiamo suddiviso l’Italia in zone rosse, arancioni, gialle. E un certo giorno abbiamo chiuso tutto per tutti. Ma è possibile che un cittadino di Matera, dove ci sono 60 casi, debba vivere fra cucina e soggiorno come uno di Bergamo o Brescia? Se ne scrive poco, ma a Roma sono tutti furibondi per il lockdown. C’è panico sociale. Tassisti, ristoratori, albergatori. Distrutti».
Il mantra è che la salute fa premio su tutto.
«D’accordo, ma questa è una catastrofe anche dal punto di vista della credibilità nazionale. Perché Corea e Germania non hanno le nostre percentuali imbarazzanti? Tutti cominciano a chiedersi all’estero cosa sta succedendo in Italia, dove il sistema sanitario sembra peggiore che in Africa. Un amico americano mi ha detto: «In Italia tornerò, ma se dovessi prendere
un raffreddore avrei paura».
Quale conclusione possiamo trarre?
«Il virus ci dice che la decadenza della classe politica è spaventosa. Il discorso è trasversale ai partiti, non mi interessano i colori. A gennaio il nostro ministro della Santità, Roberto Speranza, doveva chiedere a Singapore e alla Corea i protocolli d’intervento, i documenti e implementare le situazioni comuni. Invece ci siamo fatti guidare dall’irrazionalità quando le buone pratiche di chi aveva un mese di vantaggio erano lì da copiare».
Ci faccia un altro esempio.
«Poiché il virus ha un effetto molto limitato sui bambini, a Singapore
le scuole non sono state chiuse. Qui ci dicono che i ragazzi saltano l’anno perché nessuno è disposto ad andare in classe a luglio. Una follia. Non ditemi che qualche ora di lezione online fa la differenza».
Perché in Italia prevale la prudenza su tutto?
«Perché nessuno è professionista nel proprio ramo. Il problema è che il ministro della Sanità deve essere il più bravo di tutti, un esperto vero. Invece ci siamo dovuti accontentare di politici senza conoscenze che a loro volta si fidano degli esperti. Lei conosce un avvocato che dice al cliente: stai tranquillo, vinciamo? Io no. L’esperto si limita a mettere le mani avanti. Se fosse per gli scienziati non apriremmo fino a luglio. Muore il virus ma moriamo di fame prima noi».
Si apre un altro fronte. Anche qui il modello asiatico può aiutare?
«Certo. Appena le condizioni lo consentono dovrebbe andare a lavorare chi ha dai 25 ai 50 anni. Per questa fascia c’è lo 0,3 per cento di mortalità. Ovviamente con le mascherine e tutte le precauzioni. Poiché il 30 per cento dei giovani vive con i genitori magari anziani, questo milione di persone andrebbe alloggiato negli alberghi per un mese».
A spese dello Stato sarebbe una botta.
«Per niente. Il ministero investirebbe 30 euro a camera in una struttura che altrimenti sarebbe chiusa: con un miliardo darebbe ossigeno al settore alberghiero in ginocchio. Senza contare che, non pagando le casse integrazioni, lo Stato risparmierebbe anche qualcosa».
È il grande problema della fase due. Nessuno ha idea di come organizzarla.
«Chi ha a cuore il Paese ci deve pensare, non può farsi prendere dal panico o aggrapparsi agli scienziati. Per loro l’isolamento potrebbe essere eterno; ci stanno convincendo che con una corsetta da soli all’aperto propaghiamo il virus. La lezione asiatica è che non ci si infetta facendo jogging a tre metri di distanza dagli altri, se non al chiuso. A Valencia, dove dicevano che l’epidemia era partita allo stadio, il contagio non è esploso come a Madrid e a Barcellona. Perché lo stadio è all’aperto».
Torniamo alla ripartenza. Quali difficoltà vede?
«Non possiamo andare avanti come se non ci importasse dell’economia. Dobbiamo riaprire con tutte le cautele, ma riaprire. I discorsi li abbiamo già sentiti, i numeri anche, e ci siamo fatti una ragione: se non ripartiamo noi imprenditori, non ci aiuta nessuno».
Il premier Conte è prodigo di annunci e di garanzie.
«Non si può stare ad aspettare la manna o i 500 miliardi a pioggia dei tedeschi. Favole, non arriveranno mai. Rimbocchiamoci le maniche e ripartiamo, siamo italiani e ce la possiamo fare. Ma chi ci governa deve essere pronto. Non disconnesso come a gennaio, quando ignorò la lezione di chi stava in prima linea».
