L’espansione di Pechino nel Sud-Est dell’Europa dimostra la volatilità di certe alleanze. Troppo facilmente celebrate.
Da Trieste, il «limes» della nuova Guerra fredda si scorge benissimo. Per molti versi, è più vicino all’Italia di quanto non fosse il confine della Guerra fredda, che pure era scrutato con occhi attenti da Roma. Quale sottosegretario alla presidenza del Consiglio, un giovanissimo Giulio Andreotti si occupò a lungo delle questioni di Trieste e dell’Istria nel Secondo dopoguerra. Il tema continuò a ingombrare le menti degli strateghi della Prima Repubblica. Lo «jugocomunismo», pur spietato e sanguinario, si frappose infatti a lungo tra noi e l’Unione Sovietica. Proprio su questo aspetto, un altro democristiano, Francesco Cossiga, la pensava in questi termini: noi dobbiamo essere eternamente grati alla Jugoslavia per averci evitato il contatto diretto con il Patto di Varsavia. Se non vi fosse stata la Jugoslavia avremmo dovuto destinare ben altra quota del nostro reddito alle armi, a spese del benessere generale.
L’ex-Jugoslavia, oggi, ha definitivamente cessato di fungere da cuscinetto geopolitico. La linea immaginaria che separa i Nostri dagli Altri, a sua volta, si è spostata. L’Oriente si è spostato verso Occidente. Anche il Nemico ha cambiato volto. Non più il Patto di Varsavia, bensì una pletora di attori che a vario titolo insistono sui Balcani. Come i Russi, tornati in auge da quelle parti a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. E poi i Turchi, che storicamente fibrillano le popolazioni musulmane nei Balcani ma che sono oggi irrinunciabili agli occhi degli Stati Uniti in ragione della loro funzione anti-cinese in Asia centrale. Non mancano ovviamente i tedeschi, che nei Balcani fanno affari e intrattengono forti relazioni diplomatiche.
Non è un caso che una grossa parte del contingente americano già di stanza in Germania sia attualmente in fase di trasloco verso il Nord-est italiano. È un faro puntato verso i Balcani, e un monito ai cinesi ormai avvinghiati al corridoio che attraversa il Friuli e intercetta quello Baltico-Adriatico, che si estende dai porti polacchi di Gdansk e Gdynia e da Szczecin e da Swinoujscie e, passando attraverso la Repubblica Ceca o la Slovacchia e l’Austria orientale, raggiunge il porto sloveno di Capodistria e i porti italiani di Trieste, Venezia e Ravenna.
Sia chiaro: il piano di Pechino prevede un’obbligazione di risultato, non di mezzi. I cinesi sono pronti a cambiare cavallo alla prima occasione. L’ascensore per il nord potrebbe non essere italiano, bensì balcanico. L’idea, a Pechino, non sarebbe nemmeno nuova. Storicamente, i cinesi un piede nei Balcani l’hanno sempre avuto: in Albania. La novità, casomai, è la loro volontà inesorabile di risalire i Balcani verso nord.
Nei Balcani, tra il 2008 e il 2018, la Cina ha investito complessivamente 12 miliardi di euro. Di questi ben 10 miliardi sono stati convogliati in Serbia dove Pechino è oggi il principale partner economico non europeo e, grazie alla proprietà delle acciaierie Smederovo, ha superato la italo-americana Fca nel primato delle esportazioni. Come spiega bene l’esperto di Balcani Laris Gaiser in Contagio Rosso, saggio da poco curato da chi scrive per la collana Historica delle edizioni Giubilei Regnani, l’alleanza strategica siglata dai cinesi con la Serbia nel 2016 fu un momento fortemente simbolico. Non poco pesano i precedenti. Il 7 maggio 1999, nel pieno della guerra Nato a Slobodan Miloševic i missili da crociera Usa colpirono «accidentalmente» l’ambasciata cinese a Belgrado in rappresaglia per il sostegno dell’intelligence di Pechino al leader serbo. L’allora presidente americano Bill Clinton si scusò, attribuendo lo spiacevole incidente all’uso di mappe imprecise da parte della Cia.
Il messaggio per Jiang Zemin, tuttavia, fu quello di stare al proprio posto e di non mettere il naso fuori dall’Asia. Ma l’allora presidente cinese ha solo differito nel tempo l’esecuzione dei suoi piani, di cui oggi si fa interprete il successore Xi Jinping. E, si badi bene, non mancano le cattive notizie per l’Italia. È proprio di questi giorni la notizia secondo cui tre terminalisti cinesi – Ningbo Zhoushan Port, Tianjin Port Overseas, e la China Road and Bridge Corporation – sono in corsa per una maxi-concessione portuale a Rijeka, il principale porto croato. Nonostante i recenti incontri del governo Conte con i vertici di Pechino, il mito della nostra insostituibilità nell’equazione strategica cinese – la penisola italiana come tassello ineludibile delle Vie della Seta – va ridimensionato. E di molto.
