Il presidente americano non governa, ma cerca di assecondare l’attuale «de-globalizzazione». Storia di una presidenza complessa.Le aspettative riposte su Joe Biden erano alte.
Contribuivano ad alimentarle gli anni trascorsi da lui stesso al Senato (dal 1973 al 2009, un’infinità di tempo), la vicepresidenza al fianco di Barack Obama e un profilo che dalle nostre parti si definirebbe da consumato «centrista».
Sul fronte interno, ce n’era forse abbastanza per mettere fine alla polarizzazione molto marcata della politica americana, precipitata da anni in una logica binaria autodistruttiva, in cui nativisti e «woke», i cosiddetti «consapevoli radicali», si scontrano senza requie. In Biden, insomma, molti vedevano non tanto un anti-Trump, quanto una figura composta in grado di pacificare un Paese e consentire così la riunificazione delle numerose anime dell’Occidente. Aspettative enormi, andate in parte deluse.
Un aspetto critico è rappresentato dal pallottoliere dei voti di cui Biden ha bisogno per disporre di una maggioranza al Congresso. Già oggi, Biden pattina sul ghiaccio sottile. Le enormi difficoltà nel nominare ambasciatori in giro per il mondo ne sono forse la testimonianza più vistosa. Le Presidenziali Usa che hanno visto prevalere Biden risalgono ormai al novembre del 2020, ma quasi un anno e mezzo dopo in molte capitali del mondo (Roma compresa) non c’è un ambasciatore. Il vero punto, però, è un altro: al presidente non è finora riuscito il miracolo di arginare l’ala più radicale del suo partito. Il gioco, tuttavia, sembra passare ancora una volta dalla capacità dei leader di mobilitare elettorati inferociti, vincendo sul filo di lana elezioni roventi. La conciliazione degli Stati Uniti non è alle viste, Biden non è l’uomo della riappacificazione. Questo spiega anche il perdurare sulla scena di Trump, convinto di portare a casa la nomination repubblicana nel 2024 e giocare nuovamente la partita per la Casa Bianca.
Sul fronte esterno il bottino non può dirsi altrettanto magro, ma le preoccupazioni non mancano. Con Biden alla Casa Bianca, l’Occidente appare più compatto. A questa sensazione di unità contribuiscono senza dubbio l’invasione russa dell’Ucraina e il sostegno offerto a Mosca dalla Cina. La stessa Cina, con una torsione autoritaria fattasi vieppiù evidente durante la pandemia Covid, non è più una sirena in grado di ammaliare l’Occidente. Il presidente americano, insomma, è stato il beneficiario di nuove linee di marcia. Tendenze profonde, dinamiche impersonali, che Biden non governa ma in qualche modo cerca di assecondare.
I suoi durissimi giudizi su Vladimir Putin, che Biden già nel marzo del 2021 definì un «assassino», vennero lì per lì derubricati a intemperanze verbali, gaffes di un presidente non sempre attentissimo alle forme, ma possono oggi dirsi azzeccati. Non era Biden che straparlava, bensì una pletora di individui che si ostinava a non voler vedere la realtà per quello che è. Con la de-globalizzazione che procede a tappe accelerate, tuttavia, lo stesso numero uno della Casa Bianca è talora preso in contropiede. L’Eurasia sta divenendo in men che non si dica un vasto quanto lugubre club di potenze autoritarie, mentre l’Atlantico si sta richiudendo in una sorta di risveglio euro-atlantico che procede a tappe forzate. L’Africa, per anni un’autostrada spianata ai colossi di Stato cinesi, è tornato continente conteso tra Occidente e sino-russi. È un mondo nuovo, terra incognita anche per Biden. Ai tedeschi, che gli propongono a mezzo stampa un trattato di libero scambio euro-atlantico, il presidente non risponde. Esita, forse vuole riportare in vita il complicatissimo accordo Ttip inseguito dal predecessore, o forse ha altro in mente. L’incontro con Papa Bergoglio non è a sua volta di chiara lettura. Può dirsi scongiurato il deragliamento del Vaticano di Bergoglio verso la Cina? Davanti alla Russia che invade l’Ucraina, Biden si mostra risoluto ma non troppo. A dettare la linea della fermezza sono gli apparati militari e di intelligence statunitensi. Attestati su questa linea («l’unica opzione è sconfiggere la Russia sul campo») sono anche gli inglesi, alleati di sempre.
Note preoccupanti arrivano anche dal Golfo. Le monarchie emiratine e saudite sono sul chi va là, temono che il presidente voglia «scongelare» l’Iran e non apprezzano il costante richiamo a valori democratici che considerano destabilizzante. Anche l’India, pare coinvolta nel contenimento della Cina al fianco di Stati Uniti, Australia e Giappone, non ne vuole sapere di chiudere i «boccaporti» con la Russia. Sì, davanti a tutto questo Biden è esausto, ma può contare su Jake Sullivan, il tenace consigliere per la sicurezza nazionale. Altri esponenti della formidabile burocrazia imperiale a stelle e strisce sono all’opera. È il miracolo del potere americano che si rinnova: non i presidenti che a turno calcano le scene, ma lo «Stato profondo» che li sorregge. n
FRancesco Galietti è esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar
