Jerome Powell e Christine Lagarde sono, rispettivamente, presidente della Federal Reserve e della Banca centrale europea. Dalle loro decisioni dipendono stabilità e andamento dei mercati finanziari. Anche loro sbagliano, però. E oggi, spesso, una loro scelta può determinare reazioni opposte a quelle attese…
Sono un uomo e una donna. Lui è nato a Washington nel 1953, lei a Parigi nel 1956. Lui si laurea in politica alla Princeton con una tesi sul Sud Africa e poi in legge alla Georgetown University; lei in letteratura americana all’Ecole d’art d’Avignon e in legge alla Université Paris-X. Lui lavora a New York in prestigiosi studi di avvocato e in banche di investimento, lei è la prima donna ad assumere la presidenza dello studio legale Baker McKenzie a Chicago. Lui entra nel 2011 come consigliere nella Federal Reserve, la banca centrale americana; lei è più volte ministro del governo francese e nel 2011 viene nominata direttore generale del Fondo monetario internazionale. Lui è sposato e ha tre figli, lei è separata con due figli. Lui è Jerome Powell ed è presidente della Federal Reserve, lei è Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea.
E come nel celeberrimo telefilm degli anni Settanta, dopo questo rapido excursus sulle loro vite dovrebbe comparire il titolo Attenti a quei due. Già, perché dalle parole di questi due individui dipende l’andamento dei risparmi di centinaia di milioni di persone. Mai come in questi ultimi anni i banchieri centrali hanno rivestito un ruolo così importante nel decidere le sorti di intere economie e nell’indirizzare i mercati finanziari: basta solo ricordare la frase «Whatever it takes», «a qualunque costo», di Mario Draghi che salvò l’euro da una crisi esiziale.
Le ragioni di questo potere risiedono in due cause, una esterna e una interna: sul primo fronte, ci sono state le crisi finanziarie dei mutui subprime e dell’euro, mentre l’economia reale ha subito pochi sbalzi del Pil e dei prezzi; sul secondo fronte, c’è stato l’avvio delle politiche accomodanti avviate dalla Fed e poi della Bce. «Se escludiamo gli effetti della pandemia, negli ultimi 10 anni non ci sono state variazioni particolarmente forti nella crescita economia o nell’inflazione» conferma Fabrizio Quirighetti, gestore della società svizzera d’investimento Decalia. «Quindi la variabile principale sono diventate le decisioni e le parole delle banche centrali da cui deriva il costo del denaro».
Come un tossicomane, i mercati finanziari sono diventati dipendenti dalle scelte dei banchieri centrali che li hanno drogati con il quantitative easing, cioè l’acquisto di titoli obbligazionari da parte di Bce e Fed per tenere bassi i tassi di interesse e immettere moneta nel sistema economico. Una situazione che, secondo alcuni analisti, potrebbe esplodere quando l’inflazione tornerà a crescere e il quantitative easing sarà terminato.
«L’influenza delle banche centrali sui mercati finanziari» aggiunge Alessandro Parravicini, consulente indipendente e autore di Jungle Guide, il modo più difficile per fare soldi facili (Mondadori), «è profonda e pervasiva: potendo non solo determinare nel breve termine il livello dei tassi d’interessi, ma indicare anche la tendenza che essi avranno nel prossimo futuro, esse sono in grado di formare le aspettative degli investitori sul ciclo economico. Il rapporto è per certi versi simbiotico, dato che anche le banche centrali dipendono dal mercato per misurare le aspettative d’inflazione, parte fondamentale nel loro processo decisionale».
Il problema è che le parole dei banchieri centrali non sono scritte sulla pietra: «Le esperienze passate» dice Quirighetti «ci mostrano che la Fed può essere risoluta un giorno e cambiare idea il giorno dopo. Ricordate il settembre 2018, quando Powell dichiarò che i mercati avrebbero dovuto prepararsi a tassi più alti… per poi tagliare il tasso nominale pochi mesi dopo? Oppure il caso della Banca centrale svizzera, che dopo aver indicato come invalicabile il rapporto di 1,2 franchi per un euro, improvvisamente nel 2015 si rimangiò questa decisione? Il guaio è che oggi, dopo aver ricevuto il messaggio che i tassi di interessi saranno a zero per anni, i mercati si sono spinti verso investimenti speculativi e di conseguenza ogni piccola parola della Fed e della Bce può avere un impatto violento sulla borsa. Non è facile oggi fare il banchiere centrale».
Basta infatti una frase sbagliata e la frittata è fatta. E che frittata. Giovedì 12 marzo 2020, nel corso della sua prima conferenza stampa, Lagarde disse: «We are not here to close spreads, this is not the function or the mission of the Ecb», «Non siamo qui per ridurre gli spread, non è la funzione della Bce». Nel giro di pochi minuti l’indice della Borsa di Milano perse il 17 per cento, peggior ribasso di tutti i tempi di Piazza Affari mentre le obbligazioni dei Paesi europei del Sud videro un’impennata dei tassi. E dire che Lagarde non aveva tecnicamente torto, ma sbagliò malamente modi e tempi rischiando di distruggere con una gaffe il lavoro fatto dal suo predecessore Draghi.
Prima del nostro Supermario, anche Jean-Claude Trichet non è stato esente da errori. Nel luglio del 2008, allarmato da un aumento dei prezzi del petrolio e dei beni alimentari, l’allora presidente della Bce alzò i tassi di interesse provocando una brusco rallentamento della crescita economica in Europa, che appena due mesi dopo precipitò nella crisi globale. Non solo. Nel 2011, con Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna sull’orlo del default, la banca centrale alzò per due volte i tassi, ad aprile e a luglio, aggravando così la crisi del debito. Del resto, fino all’avvento di Draghi la Bce è stata vittima di un’ossessione di matrice tedesca: la paura dell’inflazione, che va combattuta a costo di ammazzare la crescita.
Anche il grande potere dei banchieri centrali, tuttavia, ha dei limiti e si trova imbrigliato nella stessa rete che ha steso: come ricorda Parravicini, «la supposta dipendenza dei mercati dalla banche centrali ultimamente ha subito una curiosa inversione dei ruoli. Non appena il presidente di turno della Fed prova a normalizzare la politica monetaria, partono vendite massicce di titoli e la volatilità aumenta. Quando nell’estate del 2011 l’allora presidente della Fed Ben Bernanke aveva goffamente accennato alla possibilità di ridurre il quantitative easing, le Borse subirono improvvisi ribassi e il rendimento del decennale americano crollò di quasi un punto percentuale. E nelle scorse settimane, dopo che Powell ha detto di non vedere rischi inflazionistici all’orizzonte, il rendimento del decennale è salito fino all’1,7 per cento e molto probabilmente lo vedremo lambire il 2 entro maggio. Di fatto ora sono gli investitori ad avere il coltello dalla parte del manico».
Forse il più grande errore delle banche centrali è credersi più forti dei mercati?