I rincari delle materie prime e dei componenti per l’industria mina le ottimistiche stime della crescita al 6 per cento del Pil dal governo italiano e dagli organismi internazionali per quest’anno. Con il debito e l’inflazione che continuano a salire.
Come uno scolaro con modesto profitto, Mario Draghi s’aggrappa a quel 6 (per cento). Anche la stretta sul green pass non c’entra con la salute, ma è finalizzato al 6: ossia la crescita stimata da Confindustria, dal governo, dall’Fmi e perfino dall’Ocse a fine anno per il nostro Paese. È un dato reale?
Difficile dirlo mentre profilano nubi nere all’orizzonte, certo è un dato funzionale a far ritenere che il debito italiano di 2.730 miliardi (156 per cento rispetto al Pil) sia sostenibile. Solo una crescita robustissima, superiore alla media europea, può rendere credibile che quei soldi riusciremo a restituirli, a partire dall’ulteriore debito contratto con il Recovery fund (due terzi di prestiti pari a 127 miliardi e meno di 70 miliardi a fondo perduto).
È lecito pensare che la nostra crescita sia infettata dal virus dell’incertezza con le sue tante varianti, e che Draghi e il ministro economico Daniele Franco stiano giocando con i numeri. Anche perché, avendo perso lo scorso anno il 9 per cento, restiamo comunque sotto il livello di Pil del 2019 e lo recupereremo, se va tutto bene, solo a fine 2022. Siamo un Paese che in quattro anni ha avuto crescita zero e un aumento di 30 punti del debito. Sperare in un fisco più leggero è utopia. Lo dimostra la manovra finanziaria appena varata. Per la prima volta dopo molti anni l’Italia l’ha mandata a Bruxelles per la bollinatura in ritardo e incompleta, ed è inutile cercare la notizia sui media mainstream: semplicemente è occultata. Il motivo? Le cifre ballano nella massima incertezza.
Proviamo a fare un po’ di chiarezza di contesto per capire se quel 6 per cento ha un senso. Partiamo proprio dalla manovra dove tutto ciò che è spesa viene drasticamente ridotto, i capitoli di rifinanziamento sono solo su interventi che possono accelerare nel breve la statistica. Non c’è nulla di sistemico. Reddito di cittadinanza, bonus edilizi, incentivi all’infrastrutture servono a evitare un’ulteriore caduta dei consumi, messi a durissima prova dall’inflazione che corre, e a contabilizzare subito fattori di moltiplicatore per far vedere che, se anche l’acqua scarseggia, «la papera galleggia». C’è poi una gravissima incognita: l’Ue ci ha riconosciuto 24,9 miliardi come anticipo sul Pnrr che è fortemente condizionato, ma noi siamo indietro su tutto.
Draghi ha ammesso che su 51 adempimenti previsti solo 13 si possono dire portati a termine. E se non facciamo i compiti entro l’anno Bruxelles ci chiederà indietro i soldi. Dovesse accadere, la crescita si ridurrebbe automaticamente di un 0,6 con altri effetti negativi di medio periodo. Mettere ulteriori 8,8 miliardi nel Reddito di cittadinanza, limitando allo stesso tempo l’esodo pensionistico senza fare nessuna riforma delle politiche attive del lavoro, significa aggravare i veri dati di minorità dell’economia italiana: la bassa produttività e l’inoccupazione giovanile.
Dal 1999 al 2019, il Pil per ora lavorato in Italia è cresciuto del 4,2 per cento, mentre in Francia e Germania è aumentato rispettivamente del 21,2 e del 21,3 per cento. L’Italia è il Paese con il più alto tasso di ragazzi tra 15 e 29 anni che non fanno nulla, in compenso abbiamo 5,4 milioni di persone in povertà assoluta. Vi sono altri due dati di cui tenere conto quando si parla della «miracolosa ripresa»: per effetto del Covid la caduta del Pil italiano, che già aveva un andamento da bradipo (tra il 1999 e il 2019 è incrementato del 7,9 per cento, in Germania, Francia e Spagna invece del 30,2, del 32,4 e del 43,6) è stata del 8,9 per cento, mentre in tutta Europa è stata del 6,2.
L’Italia è l’unico Paese, dall’entrata in vigore dell’euro, dove i salari sono diminuiti: il 2,9 per cento a fronte di una crescita in Germania del 33,7. Oggi siamo al 13simo posto nell’Unione e nel 2020 da noi gli stipendi si sono contratti del 6 per cento, il doppio di quanto accaduto in Francia e in Spagna. È di tutta evidenza che sperare nei consumi come volano della ripresa è illusorio, visto che pure l’inflazione picchia duro. La bolletta energetica, i rincari alimentari e dei trasporti fanno la fanno prevedere oltre il 3 per cento, a fronte di salari e pensioni che sono scesi di 6 punti. Con un rincaro a fine anno per le famiglie – se tutto resta com’è e non s’aggrava – di almeno 1.650 euro. Per questo l’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che magnifica la ripresa invita però l’Italia ad agire sul cuneo fiscale (in manovra ci sono 8 miliardi ma sembrano pochi) e a ridurre la spesa in pensioni, senza contare che queste sono da noi il vero e unico ammortizzatore sociale. Il dato dell’inflazione peserà anche sulle politiche della Bce.
Si è detto che Christine Lagarde ha margini di manovra perché il tetto del 2 per cento non è così rigido, si è anche detto che le dimissioni di Jens Weidmann dalla Bundesbank spianano la strada a una politica accomodante. Ma i liberali tedeschi che entrano nel nuovo governo hanno già avvertito che il Peep (il piano straordinario di acquisto titoli) della Bce deve finire prima di marzo 2022 e che i 1.850 miliardi previsti per questa voce sono troppi. Del pari, le tensioni inflazionistiche che ci sono in Germania dove l’aumento dei prezzi dà origine a psicosi collettive (a Berlino siamo oltre il 4,1 per cento) a fronte di rinnovi contrattuali generosi – con relativi scioperi – e di costi energetici impazziti fanno scrivere ai giornali che l’Europa impoverisce le aziende e i risparmiatori tedeschi per favorire le economie parassitarie di cui l’Italia sarebbe il più alto rappresentante.
Il quadro dunque non è roseo: se Bruxelles dovesse rimettere in vigore il patto di stabilità (Valdis Dombrovskis lo vuole subito e Paolo Gentiloni ha dovuto accodarsi) e Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, comincia a dire che l’emergenza pandemia non può durare all’infinito, e se la Bce dovesse cambiare politica sui tassi e sull’acquisto titoli, la fragilità dell’economia italiana sarebbe conclamata. Ma non basta perché già adesso – rincari dell’energia a parte – rischiamo che la produzione industriale si pianti (in agosto -0,2 per cento) per il rincaro e la scarsità delle materie prime.
A soffrire molto è l’agroalimentare: le cantine hanno rincari del 70 per cento, gli allevamenti del 45, la crisi del grano è ormai chiara. Ciò significa che il nostro primo settore economico è in forte tensione. Lo stesso vale per l’export con i noli decuplicati (un contanier in sei mesi è passato da 370 euro a 6 mila dollari) e le difficoltà crescenti nel trasporto senza contare gli effetti – non ancora misurati ma che ci sono – del green pass obbligatorio sulla produttività del sistema economico e del traffico merci in particolare. Ciliegina sulla torta: la Cina. Lì il Pil è aumentato solo del 4,9 per cento. La bolla immobiliare Evergrande e il crollo dei consumi interni lascia presagire che non sarà una crisi passeggera e si scaricherà su tutto il sistema economico. Ma noi continuiamo a inseguire il numero 6. Perché a Draghi tutto può accadere tranne che di esser bocciato.
