Con un analogo aumento, gli indici sono cresciuti in maniera incontrollabile sia in Europa sia in America. Le cause, però, sono differenti. E nonostante l’azione delle Banche centrali, l’uscita dalla crisi è complicata.
Le folli temperature dell’estate 2022? Ben poca cosa, in confronto al calore dei prezzi. A fine giugno, negli Stati Uniti, l’inflazione è salita al 9,1 per cento, ed è stato l’incremento più forte dal novembre 1981, agli inizi della presidenza di Ronald Reagan. Ma è balzata addirittura al 9,6 per cento nell’Unione europea, un record da quando nel 1992 fu fondata l’Unione economia monetaria. È stato il classico risveglio del mostro: un anno fa in America i prezzi crescevano già, ma soltanto del 5 per cento; mentre in Europa erano appena al 2,2 per cento. Che l’inflazione dovesse ripartire era chiaro da tempo, per una serie di fattori coincidenti e complici.
Era più che prevedibile che le potenti manovre di stimolo all’economia varate a partire dal 2020 dall’Unione europea e dagli Stati Uniti, dove Recovery plan paralleli da migliaia di miliardi pubblici sono stati messi a disposizione di imprese e famiglie, avrebbero riacceso i meccanismi inflattivi. Alla bolla della massa monetaria, però, s’è aggiunto il drastico aumento dei prezzi mondiali dell’energia, innescato nel 2021 dalla forte ripresa globale dei consumi. Non bastasse, dalla fine dello scorso febbraio la fiammata dei prezzi energetici s’è trasformata in un rogo disastroso per colpa dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. E le stesse sanzioni poste dall’Occidente nei confronti del governo di Vladimir Putin hanno avuto tra gli effetti un braccio di ferro sulle forniture di gas e petrolio, con un nuovo forte aumento dei prezzi energetici. La stessa guerra, infine, ha causato un crescita fuori controllo nei costi dei cereali, grazie al blocco imposto per cinque mesi all’immenso export ucraino.
Per tutto questo, molti economisti oggi parlano della classica «tempesta perfetta» sul fronte dei prezzi al consumo. In realtà, anche se si assomigliano molto, l’inflazione americana e quella europea sono estremamente diverse tra di loro. È vero che in entrambi i continenti l’inflazione ha come prima componente l’energia, i cui prezzi medi lo scorso maggio avevano segnato un rialzo del 39 per cento su base annua nell’Eurozona, e del 34 per cento negli Stati Uniti. Ma il peso per questi approvvigionamenti di risorse è molto più elevato per i Paesi del Vecchio continente, dove petrolio e gas da soli valgono oltre quattro decimi dell’aumento dell’inflazione, mentre negli Usa pesano grosso modo per un quinto. Ed è vero che ormai il costo dell’energia è alto ovunque, a livello globale, ma gli Stati Uniti producono il loro petrolio e il loro gas, mentre l’Europa (a parte la Francia, grazie ai suoi impianti nucleari) dipende in massima parte dalle importazioni. Se si escludesse del tutto il computo di tale componente, insomma, l’inflazione europea nel primo semestre sarebbe salita «soltanto» del 5 per cento, mentre Oltreoceano sarebbe stata molto più alta, all’incirca al 7,2.
L’inflazione nella Ue, quindi, è molto più «importata» e più legata alle dinamiche dell’offerta: a darle forza, fin qui, è stato soprattutto il vertiginoso aumento dei prezzi del gas e del petrolio russi degli ultimi 8-10 mesi. Mentre l’inflazione vissuta negli Stati Uniti è prodotta in parte maggiore da cause interne ed è molto più condizionata dalle dinamiche della domanda: del resto, negli Usa la spesa per consumi privati nel primo semestre 2022 ha subìto un incremento del 18 per cento, mentre la Commissione Ue stima che «i consumi delle famiglie europee si siano contratti per il secondo semestre di fila» e prevede solo «un lieve aumento dei consumi privati da qui al 2023».
Un’altra differenza fondamentale tra le due inflazioni è determinata dal mercato del lavoro. Una specifica componente inflattiva, negli Stati Uniti, viene dal fatto che da tempo il tasso di disoccupazione americano è particolarmente basso: in giugno è sceso al 3,6 per cento, contro il 7,1 dell’Europa. Gli effetti di questa diversità sono importanti, perché proprio per compensare la forte domanda di lavoro i salari americani sono cresciuti a ritmi sostenuti sia nel 2021 (+4,7 per cento) sia nei primi sei mesi 2022 (+2,1 per cento). Il risultato? La maggiore disponibilità di denaro determina più consumi, quindi più domanda e prezzi più alti delle merci. In Europa, invece, la dinamica salariale al momento è molto più contenuta. Le ultime rilevazioni della Commissione Ue in questo campo sono ferme a fine 2021, ma per l’anno scorso indicano un aumento medio dei salari dell’1,6 per cento.
L’insieme di questi elementi induce a ritenere che negli Stati Uniti l’inflazione sia un fenomeno ben più radicato che in Europa, e probabilmente anche molto meno passeggero di quanto fosse possibile ritenere all’inizio del 2022. Questo non significa che l’inflazione europea sia meno pericolosa: «Comincerà a scendere solo quando arriveremo alla pace tra Ucraina e Russia» dice per esempio l’economista Alberto Quadrio Curzio «ma se questo non accade non possiamo pensare che i prezzi a breve diminuiscano. Purtroppo questa situazione non ha precedenti dal Dopoguerra». È anche per questo che gli economisti nel loro insieme mostrano scetticismo sulle contromisure prese fin qui dalla Federal Reserve americana e dalla Banca centrale europea. La Fed ha risposto alla fiammata dell’inflazione con una durezza decisamente superiore: a metà giugno aveva aumentato di 75 punti base i tassi d’interesse, poi ha ripetuto la mossa il 28 luglio e ha già annunciato che potrebbe fare lo stesso in settembre.
Il presidente della Fed, Jerome Powell, ha annunciato che i tassi d’interesse americani raggiungeranno il 3,4 per cento alla fine del 2022, salendo ancora al 3,8 nel 2023. Con queste misure la Federal Reserve spera che l’inflazione possa scendere al 5,2 per cento alla fine di quest’anno. La Bce ha scelto invece una politica più attendista fino allo scorso 21 luglio, quando ha deciso un rialzo di 50 punti base: il suo presidente, Christine Lagarde, ha spiegato che un tasso allo 0,50 per cento «tiene conto delle ultime stime sui rischi d’inflazione» e «punta ad assicurare un ritorno di essa verso il suo obiettivo del 2 per cento a medio termine».
Il problema è che i tassi d’interesse stabiliti dalle banche centrali, banalmente, rappresentano il prezzo del denaro in circolazione: per concedere un prestito, ogni banca chiede il pagamento di un tasso di interesse, che è il costo del prestito stesso. Più aumentano i tassi di interesse decisi dalla Fed o dalla Bce, quindi, e meno conveniente diventa chiedere credito. Ma con tassi d’interesse più alti calano i consumi e l’economia frena. Per questo spegnere l’inflazione, nella torrida estate 2022, è infinitamente più difficile e complicato che trovare riparo dall’afa.
