Una politica aggressiva impone la Turchia in Libia e nel Mediterraneo. Ma nel Paese l’emergenza Covid ha accelerato una crisi fortissima, con l’economia in frenata del 10% e la disoccupazione che tocca il 30%. Per il «sultano», che ha bisogno di stabilità finanziaria e investimenti stranieri, la gestione del potere diventa ora molto più complicata.
C’è un’insegna che da mesi accoglie chi arriva nel nuovo e avveniristico aeroporto di Istanbul. Invita gli stranieri a investire almeno 250 mila dollari in Turchia, per esempio con l’acquisto di immobili, per ottenere la cittadinanza. La pubblicità è in inglese e in arabo, segno che la Mezzaluna punta soprattutto ai soldi dei Paesi del Golfo, con i quali Ankara si sta legando a doppio filo, sperando di evitare una crisi economica che avrebbe proporzioni devastanti. Ma i passeggeri sono drasticamente diminuiti a causa della pandemia, e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan pratica una politica estera sempre più aggressiva per aumentare l’influenza del Paese nella regione mediterranea e nelle future vie dell’energia.
Tanto zelo, però, sembra fatto apposta per distogliere l’attenzione della popolazione da una situazione vicina al disastro. Anche senza l’emergenza Covid-19, la situazione economica turca peggiora di settimana in settimana. La pandemia rischia «solo» di accelerare un processo che secondo molti è irreversibile e a cui concorrono tanto la frenata del Pil, comune a tutti i Paesi, quanto l’aumento della disoccupazione, una crisi valutaria che pare ormai ingestibile e una bolla immobiliare che non riesce più ad autoalimentarsi ed è prossima a scoppiare, con gravi conseguenze anche per gli investimenti nel campo infrastrutturale.
L’economia nazionale nel secondo trimestre del 2020 ha frenato di quasi il 10% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e dell’11% rispetto al primo trimestre 2020. «Nonostante tutte le dichiarazioni pessimistiche, ce la siamo cavata meglio di altri Paesi. Le fondamenta economiche della Turchia sono solide» ha esultato il ministro per le Finanze, Berat Albayrak.
Ma forse è troppo ottimista. Gli indicatori, nonostante i tentativi di maquillage del governo e del presidente Erdogan, non sono affatto buoni. Per quanto riguarda la disoccupazione, per esempio, i dati ufficiali dicono che al momento è attestata intorno al 12,5%, valore non basso ma nemmeno drammatico, in linea con i livelli pre-Covid. Peccato che la rilevazione non tenga conto di quei lavoratori che hanno perso il posto di lavoro e sono temporaneamente compensati dallo Stato.
Secondo la Disk (la Cgil turca), se si considerano anche loro, la percentuale sale al 30%, corrispondente a circa 10 milioni di persone. La soglia di povertà per una famiglia di quattro persone a luglio era di 940 euro, con il salario minimo che si aggira intorno ai 300. Il tutto, con un’inflazione che ad agosto ha sfiorato il 12%.
Se nel 2003, per una famiglia bastavano 15 lire turche, circa 1,80 euro al cambio attuale, per mangiare in modo dignitoso, ora ce ne vogliono 79,50, circa 9 euro. L’economia della Mezzaluna ha alcuni problemi strutturali mai risolti, messi sotto il tappeto negli anni di crescita del Paese anche grazie al massiccio afflusso di investimenti stranieri diretti, che non hanno fatto percepire quanto il suo impianto sia fragile ed esposto alle turbolenze dei mercati internazionali e delle crisi geopolitiche, alcune provocate proprio dalla Turchia stessa.
Uno dei problemi più grossi riguarda proprio la volatilità della valuta. La lira turca, dopo una relativa stabilità durata pochi mesi, ha ripreso a perdere terreno sull’euro e sul dollaro, cedendo rispettivamente l’8,8 e il 7,4%. La Banca centrale turca, da tempo sotto il controllo di Erdogan, ha risposto tenendo i tassi di interesse bassi per rendere competitivo il costo del denaro e cercare di sostenere la domanda interna. Un trucco che in passato ha contribuito, e non poco, a sostenere l’economia nazionale, ma che questa volta non funziona perché è tutta la cornice attorno che è cambiata.
Di soldi «solidi», investimenti stranieri diretti, che di solito entrano sotto forma di gare di appalto e vanno a finanziare grandi opere infrastrutturali, con tutto l’indotto che ne deriva, ne entrano sempre meno. Nel 2018 sono stati 13 miliardi di dollari, nel 2019 erano già calati del 35%, a 8,4 miliardi. E per il 2020 è prevista un’altra forte diminuzione. «La Turchia ha perso la fiducia degli investitori stranieri» ha detto l’economista Mustafa Sonmez. «A meno che questi non tornino a confluire nel Paese, l’economia turca non può crescere».
Le brutte notizie, per la Mezzaluna, non sono finite. La Banca centrale turca è sotto pressione anche per le sue riserve in valuta straniera, che non hanno mai avuto livelli particolarmente brillanti ma dal 2014 hanno iniziato a declinare progressivamente, anche per tamponare la crisi della valuta nazionale. Adesso, secondo alcune indiscrezioni, le riserve sarebbero sotto la soglia limite. Questo significa che potrebbe non essere in grado di coprire la passività del sistema sul breve termine, portando all’insolvenza di alcuni istituti bancari.
Il presidente Erdogan, nelle scorse settimane, ha detto che si tratta di una fake news e che la Banca conta su 105 miliardi di dollari di riserve. Rimane il fatto che la Turchia sta firmando accordi di scambio di valuta con diversi Paesi, primo fra tutti il Qatar, grande partner della Mezzaluna e anch’esso campione dei Fratelli musulmani, che in questo momento è il principale garante della stabilità finanziaria di Ankara.
Una sommatoria di fattori che può portare al collasso, anche più rapidamente se si considera l’emergenza Covid-19. Ufficialmente, Ankara conta circa 280.000 casi e 6.700 decessi. Ma i contagi hanno ripreso a salire, al ritmo di oltre 1.500 al giorno, e c’è chi accusa il governo di non aver gestito la pandemia con trasparenza, barando sui numeri.
In particolare, i sindaci di Ankara e Istanbul, entrambi appartenenti all’opposizione, hanno chiesto al governo di avere numeri reali sulle persone contagiate, mentre il prefetto di Istanbul, il luogo dove la situazione è più preoccupante, ha invitato i cittadini a evitare i luoghi affollati.
Così, dopo un’estate da dimenticare per la drastica diminuzione dei turisti (con il 75% in meno nei primi sei mesi del 2020), e ad alta tensione per i contrasti fra Turchia e Grecia nel Mediterraneo, il popolo turco si prepara ad affrontare un autunno caldo e il premier Erdogan a un momento molto difficile della gestione del suo potere, nel quale non potrà contare sui fiori all’occhiello su cui ha costruito il suo successo: l’economia e gli investimenti.
A Istanbul molti cantieri sono fermi. Il mercato immobiliare ha conosciuto una grande crescita dal 2012 al 2016, anche per la facilità con cui erano concessi i mutui e soprattutto grazie alla decisione del governo di incentivare l’acquisto di proprietà da parte di stranieri. Adesso però il meccanismo si è inceppato e così la Turchia è costretta a mettere altro sul piatto, come appunto la concessione della cittadinanza a fronte di un investimento cospicuo.
Il capo dello Stato sembra non incantare più nemmeno con i suoi maxi progetti. Per quanto da Ankara continuino ad arrivare rassicurazioni sul fatto che Kanal Istanbul, il «Secondo Bosforo», un canale artificiale scavato nella parte europea di Istanbul, si farà, tutti si chiedono dove Erdogan prenderà gli oltre 20 miliardi di dollari necessari per la sua costruzione. Che, fra le altre cose, non piace agli abitanti della megalopoli sul Bosforo. Un sondaggio recentemente condotto dal Comune di Istanbul ha messo in evidenza che il 63,2% degli intervistati non la ritiene un’opera essenziale.
