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Sandro Luporini: «Io sono un poetastro. Chi ragionava sempre era Gaber»

Sandro Luporini: «Io sono un poetastro. Chi ragionava sempre era Gaber»

Lo scrittore toscano ha scritto per oltre 30 anni tutti i monologhi del cantautore milanese. A 90 anni, continua a guardare il nostro Paese. E osserva: «Il “vaffa” non mi è mai piaciuto». Ma anche: «Non sopporto il concetto retorico dell’”italianità”». E ancora: «Chi mette la parola “Italia” nel nome un partito politico è ridicolo».


«Mi piacerebbe fare il guardiano del faro. Starmene lì tutto il giorno davanti alla luce del mare. Un mare tranquillo, però…». Sandro Luporini non si smentisce. A 90 anni, incuriosito, s’immagina un’altra vita, lui che ne ha vissute molte e con molte soddisfazioni. È stato giovanissimo giocatore di pallacanestro in serie A («Nel Cantù»). Poi pittore intenso e originale («Con amici come Giuseppe Biancheri, Mino Ceretti, Bepi Romagnoni, Tino Vaglieri, a Milano ci definirono quelli del Realismo esistenziale. Diversi dal Realismo sociale di Renato Guttuso, che invece era politico, militante. La mia tavolozza era la vita quotidiana»). Fino a quando ha legato per sempre il suo nome a quello di Giorgio Gaber come co-autore del «Teatro Canzone». Dal 1970 al 2003, anno della scomparsa dell’artista, Luporini ha scritto tutti i testi dei suoi monologhi e dei suoi spettacoli diventati storia: Far finta di essere sani, Anche per oggi non si vola, Libertà obbligatoria, Polli d’allevamento. Racconti in parole e musica che fotografano, molto meglio di un saggio di sociologia, la società e l’amore, la politica e il disincanto, le passioni e i consumi, i tic e le mode di questo Paese. Spesso con la capacità di intuire un futuro che dopo – anche oggi – si è avverato. È controcorrente per istinto, Luporini: insofferente a poteri e ipocrisie, e pure alle celebrazioni che l’hanno appena coinvolto per l’importante compleanno a cifra tonda. Antiretorico e col gusto del paradosso. Dal suo piccolo appartamento alla periferia di Viareggio, al centro di uno studio ingombro di libri e fogli, di suoi quadri marini alle pareti, di memorie e oggetti, guarda oltre la finestra. Ricorda, ma è pure attento alle cronache dal mondo. Fuma tantissimo, come ha sempre fatto. Gli piace parlare guardando in faccia l’interlocutore. «Col Covid ho avuto l’alibi di stare qui e non fare nulla… Sì, capita che scriva qualcosa, ma non dipingo più da anni. Ho i miei acciacchi, ma il mare ogni tanto me lo vado a vedere».

Il mare – non soltanto nei quadri – per lei c’è sempre. «Mi dà il senso dell’«oltre», la voglia di guardare più in là. E lo preferisco bloccato, calmo, con quei silenzi che ti liberano dal chiacchiericcio di fondo che copre le cose davvero importanti. Nel mare cerco lo stupore del miracolo di quando vedi le cose per la prima volta».

Spirituale.
«Sono più portato per la teoria che per la pratica. L’osservazione più che l’azione. D’altra parte tutti siamo in cerca di qualcosa, abbiamo domande. Io non sono credente, eppure m’interessa la dimensione religiosa. Ecco, non mi piace questo Papa – so che dispiacerò a dire questa cosa – perché è più “effettuale” che spirituale. Io voglio che mi risponda sui misteri della fede, non che prenda posizioni sulla politica globale. Un Papa mi deve dire chi siamo, che cose ci stiamo a fare qui, dove andremo. Per i migranti c’è la politica, anche se magari è inadeguata. Vorrei un Papa come Sant’Agostino. Che poi scriveva anche da Dio…»

Ha cominciato con la pittura a Roma, poi è andato a Milano.
«Ho capito che a Viareggio non potevo fare nulla e a Roma mi trovavo bene. Due anni mi sono bastati, però. Roma era “er cinema”, soprattutto apparenza. Così sono arrivato a Milano. Mi mantenevo giocando a pallacanestro. La città era aperta, accogliente, bellissima. Le osterie dove trovavi il falegname accanto all’intellettuale, tutti mescolati. Era davvero un luogo
di cultura, allora il migliore in Europa. C’erano scrittori, artisti, idee. Ma per me era difficile mettere d’accordo sport e pittura: più facevo tardi la notte, più il giorno dopo all’allenamento, mezzo addormentato, prendevo pallonate in faccia… A quel punto sono entrato nella Galleria Bergamini, con altri amici aspiranti pittori. Ci davano 50.000 lire al mese per fare cinque quadri. Dovevi esser veloce a dipingere. Un giorno Bepi Romagnoni, che era il migliore di noi e pure il più coraggioso, ha fatto una specie di rivendicazione sindacale: “Vogliamo almeno 70.000 lire!”. Bergamini ce le ha date, ma da bravo mercante qual era, i quadri sono diventati sette al mese! Poi, col successo, ho rallentato. Passavano anche cinque mesi, in attesa d’ispirazione. Un lusso».

I suoi quadri sono pieni di simboli: navi, figure solitarie su spiagge sterminate, una scacchiera davanti a finestre aperte… È il gioco delle combinazioni nella vita?
«Mi affascina la matematicità del pensiero negli scacchi, anche se io sono solo un «poetastro». Gaber invece era un infaticabile ragionatore. Potevamo passare una giornata intera a parlare di un argomento, magari da posizioni opposte. C’era però questa tendenza a convergere e alla fine ne usciva un pensiero comune».

Come funzionava l’alchimia?
«Lui era più sensibile a temi sociali e politici. Io ci mettevo il linguaggio teatrale, le immagini. E per questo ho copiato da tutti: Louis-Ferdinand Céline, Fernando Pessoa, Eugenio Montale, mettendoci però qualche parolina mia. Giusta. Gaber invece
era straordinario nelle musiche e nella recitazione, sempre attento a valorizzare il senso di un’espressione. Io tendevo a scrivere cose del tipo: “È tardi, fra i rami sul Ticino, un beccaccino sfiora le foglie, travolto dagli spari” per esprimere la voglia di volare. Lui mi riportava con i piedi per terra… e nascevano certe buone canzoni».

Ce n’è una a cui è affezionato in particolare?
«Sceglierei Il dilemma: “Un dilemma elementare se aveva senso o non aveva senso il loro amore”. È una canzone che cerca di parlare d’amore in modo onesto. Di un rapporto incasinato, sofferto. Litigate e desiderio di fedeltà, che poi non riesci a trovare…
Siamo attratti dall’altra persona, ma non riusciamo a comunicare».

È così importante l’amore?
(Accende ancora una sigaretta). È quello che conta di più.

Ha rimpianti?
«Fino a 75 anni ho avuto molte storie. L’ultima con una ragazza giovanissima. Mi sono abbandonato al fascino della sua età. C’è tuttavia qualcosa che giustifica questa attrazione: che lei è una generazione tanto distante dalla mia. Sì, c’è la bellezza, c’è il sesso, ma soprattutto c’è la curiosità per la vita».

Facciamo un gioco: un commento secco ad alcune vostre canzoni, talmente famose che le abbiamo ascoltate tutti almeno una volta. Per esempio: Quasi quasi mi mi faccio uno shampoo.
«Divertente, come una battuta, ma con un fondo di verità. Anche una cazzata qualsiasi – come «farsi lo shampoo» – ti può distogliere dal dolore più acuto. Perché siamo fragili, incostanti anche nel dolore. Nell’uomo di oggi ci trovo parecchia superficialità».

È vero che «la libertà è partecipazione»?
«Quella la odio. Una volta ho sentito un camioncino elettorale dei socialisti che la utilizzava per chiedere alla gente di andare a votare… Ma la libertà non serve a nulla se non puoi cambiare le cose. Sarebbe stato meglio dire: “La libertà è uno spazio di incidenza”. Una roba così, però, non si può proprio sentire in una canzone!»

In Si può si concede di «trasgredire qualsiasi mito / invaghirsi di un travestito».
«Mi piace ancora Si può. L’illusione di poter far tutto prendeva spunto dalla “libertà del consumismo”, comprare per essere. Mi aveva colpito un concetto profondo di Theodor Adorno nel suo Minima moralia. È uno di quei libri che io definisco «gonfi», perché
li ho sformati a forza di rileggerli. Un po’ l’abbiamo copiato, ma anche reso più leggero».

Poi ha scritto: «Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono»?
«Non sopporto il concetto retorico dell’”italianità”. E chi mette la parola “Italia” nel nome un partito politico è ridicolo».

Italia viva di Renzi?
«C’è da dire che lui è stato anche un po’ sfigato. Fonda un partito con quel nome, arriva il Covid e si muore come mosche. Certo pure Azione di Carlo Calenda… Suona come una bestemmia».

Grillo e i Cinque stelle?
«All’inizio avevano una vampata di novità, una radice anarchica. Poi è venuto il qualunquismo e il potere. Il “vaffa” però non mi è mai piaciuto. Mi ricorda il “Me ne frego!” fascista».

In generale, che effetto le fa la politica?
«Un po’ schifo. C’è sempre e comunque il compromesso. Se hai un’idea secondo me devi andare avanti, pagandone anche il prezzo. Io sono per la rivoluzione ma, intendiamoci, per la teoria della rivoluzione. Perché quando è diventata prassi allora sono state tragedie. Perciò non voto da decenni».

Non le piace l’Italia?
«Al contrario. Questo Paese mi piace perché è un po’ tutto e il contrario di tutto. Superficiale e profondo al tempo stesso».

Cambierebbe qualcosa nella sua vita?
«Forse certe imprudenze in amore. E poi sì, cambierei qualche strofa di canzone. “Quando sarò capace di amare / probabilmente non avrò bisogno / di assassinare in segreto mio padre / né di far l’amore con mia madre in sogno”… Queste cose non bisognerebbe proprio scriverle, tanto per stupire il pubblico. Il tempo passa e oggi risultano ridicole».

Gaber si lamentava che lei non ci fosse mai alle prime degli spettacoli. Snobismo o paura?
(Ride) «Paura! Io sono sempre stato timidissimo. Col tempo è andata un po’ meglio, ma insomma… Anche per questi 90 anni, quando sono lì e ascolto i discorsi su di me, vorrei essere ovunque, al Pronto soccorso, pure al cimitero! Ora mi dicono che il 30 agosto dovrei ricevere il Premio Viareggio. Certo, mi fa piacere che la mia città mi riconosca, però dovrò dire al sindaco di andarci piano. Anche Gaber era timido, non si piaceva. Però sul palco si trasformava letteralmente. Era un gigante. L’ammiravo per questo».

Le manca?
«Mancano le chiacchierate fatte a Milano o qua vicino, sopra Camaiore, nella sua casa di Montemagno. So che Ombretta Colli ora ha scritto un libro su di lui… Non ci telefoniamo da tanto tempo».

Ha paura della «fine dello spettacolo»?
«La morte impari a tenertela accanto, a conviverci. È anche difficile. però».

Si sente comunque un uomo libero?
«L’esterno non mi condiziona e questa è una bella sensazione. Poi, sai, i condizionamenti ce li mettiamo anche da soli».

È un filosofo.
(Ancora un tiro a un’altra Marlboro) «Mah, io direi un filosofo ignorante».

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