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Il governo del (non) fare

L’inerzia dimostrata per sanità, scuola, trasporti riguarda in realtà tutto il Paese: decreti attuativi mai avviati, grandi opere ferme, riforme inesistenti su giustizia, lavoro e pensioni. L’unica cosa inarrestabile resta la burocrazia.


Sul comodino si vanta di avere le opere di Winston Churchill, che nell’«ora più buia» decise la guerra contro la Germania sfoderando ardito decisionismo. Ma Giuseppe Conte farebbe bene piuttosto a riprendere in mano Il deserto dei tartari di Dino Buzzati, per rileggere del tenente Giovanni Drogo e della sua fatale indecisione. Mai s’era visto un governo tanto capace nel rinviare l’improcrastinabile e coltivare l’inerzia. A che punto è dunque la notte? Buio pesto. Tutto fermo. Stagnante come un acquitrino. Non c’è soltanto l’ostinato immobilismo sfoderato con la pandemia: ambulanze, terapie intensive, scuole e trasporti. Quello che sembrava esiziale per limitare la virulenza della seconda ondata non è stato fatto. O, nei migliori casi, procrastinato. Virus a parte, però, l’attività governativa resta in un limbo limaccioso. Infrastrutture, fisco, giustizia, semplificazione, dossier economici e riforme istituzionali.

Calma e gesso. Adesso c’è ben altro a cui pensare. Peccato che lo stallo vada avanti da sempre. Giunto inaspettatamente a metà legislatura e dismessa la pochette, il premier ne ha fatto la sua cifra distintiva. Inevitabile, per un trasformista passato dalla guida di un governo di centro destra a uno di centro sinistra. Ma, di certo, poco consolatorio.

Umarell. Così si chiamano, in dialetto lombardo, gli anziani che si dilettano a valutare l’avanzamento dei cantieri. Ecco, sfumature gergali a parte, ne era piena l’Italia. Ora sono rimasti senza l’amato passatempo. I lavori pubblici si sono fermati ovunque, e ben prima della pandemia. In particolare, le grandi opere. Con l’esclusione del Ponte Morandi, ricostruito nei tempi previsti dopo il crollo e le 43 vittime. Per il resto, da Lercara Friddi, in Sicilia, a Longarone, in Veneto, attendono impazienti quei via libera che non arrivano mai. Lo rivela il mugugno degli indomiti vecchietti, certo. Ma lo certifica perfino l’Anas. In Puglia sono già stati stanziati 1,3 miliardi. E in Sardegna addirittura quattro. Ma le lungaggini burocratiche complicano irrimediabilmente le cose. Cavilli, autorizzazioni, bolli e controbolli. Proprio quelle procedure che il presidente del consiglio ha promesso di spazzare via con il decreto Semplificazioni: «È la madre di ogni riforma, indispensabile per far correre l’Italia».

Difatti, a due mesi dal definitivo varo, rimangono da approvare i decreti attuativi. E per velocizzare ancora di più le cose, abbacinato dalle imprese del commissario all’emergenza Domenico Arcuri, annuncia di voler nominare decine di omologhi per sbloccare 50 opere strategiche: dal completamento della mitologica Jonica, statale che porta da Reggio Calabria a Taranto, al glorioso progetto dell’alta velocità tra Napoli e Bari. Era la mattina del 2 ottobre 2020: «Nelle prossime ore firmerò il decreto» assicurava Conte. Un mese più tardi, non abbiamo nuove. Intanto s’è palesato l’ennesimo intoppo: i 45 miliardi del Recovery plan destinati a costruire strade e ferrovie arriveranno tra un annetto. Bene che vada.

Prosegue con invidiabile linearità anche l’impasse su Autostrade. L’accordo, salutato il 15 luglio 2020 con squilli di trombe e rulli di tamburi, ancora non c’è. Il verbale che doveva sancire l’uscita dei Benetton da Aspi resta uno scarabocchio su un tovagliolo. «Neppure un euro ai Benetton» assicuravano Conte e Luigi Di Maio lo scorso luglio. Invece, ai signori di Ponzano Veneto di euro ne andranno parecchi. E sarà lo Stato, tramite la munifica Cassa depositi e prestiti, a scucirli.

Insomma: la «caducazione della concessione», annunciata dal premier nell’estate del 2018, non c’è. A meno che Cdp non acconsenta alle proposte di Atlantia, che controlla la società: 10 miliardi e manleva su debiti, crediti e cause. Prendere o lasciare. E lasciare vorrebbe dire, oltre a perdere definitivamente la faccia, dover pagare una stratosferica penale. Con i soldi pubblici, ovviamente. Nel frattempo, la rete viaria cade a pezzi.

In perfetto stile giallorosso, procedono roboanti proclami seguiti da maldestre retromarce pure sull’ex Ilva. «La battaglia legale del secolo» informava l’avvocato premier un anno fa. Anche la trattativa tra l’esecutivo e ArcelorMittal s’è arenata. S’avvicina la fine di novembre: se non sarà raggiunta un’intesa, la multinazionale potrà sfilarsi versando una penale di 500 milioni. E lo Stato tornerà padrone dell’acciaieria, con 3.300 esuberi dichiarati. Rimane tribolato pure il futuro del Monte dei Paschi di Siena. Dopo la ricapitalizzazione della banca, il Tesoro controlla il 68 per cento. Ma vuole uscire entro il 2021. Peccato nessuno si faccia avanti. Come, del resto, è accaduto con Alitalia. Lo scorso giugno è nata così la nuova compagnia. Sempre pubblica, ci mancherebbe. «Non sarà un carrozzone di Stato» garantiva il giurista di Volturara Appula. Sicuro. Intanto, nei primi nove mesi dell’anno, i ricavi si sono ridotti di 2,2 miliardi. E in 5 mila rischiano il posto.

Lavoro ed economia. Servirebbe un governo di centometristi. Invece, i giallorossi continuano a girare in tondo. «La situazione è grave, una riforma del fisco non è più rinviabile» accusa la Corte dei conti. Il premier prende atto e butta lì: servirebbe un taglio dell’Iva ai settori colpiti dal Covid, limitato nel tempo e ai pagamenti con il bancomat. «Per far ripartire i consumi e dare fiducia agli italiani».

Dunque? «Ne discuteremo…». Come al solito: si vedrà. Pure stavolta. «Siamo il governo dei fatti, non degli annunci» riassicura Conte. «Ci descrivono come attendisti, incapaci di prendere decisioni. È vero il contrario. Questo è il governo che ha assunto decisioni mai prese nella storia repubblicana». E giù a snocciolare le temerarie scelte: «Siamo quelli dei protocolli di sicurezza, del patto di rilancio più ambizioso, della semplificazione più coraggiosa». Ovvero la lotta al virus, le misure per l’economia, la sburocratizzazione. Gli attuali emblemi della paralisi, in definitiva: e non a giudizio dell’opposizione, ma di mezza maggioranza.

«Tra le riforme che ci aspettano possiamo pure lavorare su quella delle pensioni» prosegue Giuseppi. Certo. E bisogna «migliorare il reddito di cittadinanza». Che, nel mentre, continua ad alimentare il lavoro nero e il lavoro dei magistrati sulla pletora di illegali percettori. A proposito: anche la giustizia, ricorda l’Ue pena l’esclusione dai salvifici fondi, avrebbe bisogno di essere rivoluzionata. Il ministro al ramo, Alfonso Bonafede, non ci dorme la notte. Come la collega all’Istruzione, Lucia Azzolina, per la scuola. Il monito di Sergio Mattarella echeggia ancora: «Basta con il correntismo dei magistrati». Così l’ex allievo del professor Conte, il 1° giugno 2020, prometteva: «Il presidente della Repubblica ha ragione. Mi sto muovendo per combattere le degenerazioni del correntismo e alzare un muro tra politica e magistratura dall’altro». Ma pure questo manufatto, al pari di quelli tanto attesi dagli umarell, rimane un progettino.

«Basta porte girevoli» aggiunge Bonafede. I pm che fanno politica non potranno tornare sui loro passi. Servono limitazioni perfino per chi si candida senza fortuna: «Le regole saranno subito in vigore». Ma anche per lui il concetto del tempo è relativo. E poi, finalmente il Csm sarà ribaltato: meritocrazia e nuovo sistema per le nomine. Accipicchia.

Solo che, nell’attesa, il pachidermico Consiglio superiore della magistratura è stato addirittura più lesto del guardiasigilli pentastellato. Il mefistofelico Palamara è stato cacciato dalla magistratura. E il plenum ha deciso di pensionare, appena compiuti settant’anni, l’ingombrante Piercamillo Davigo.

E poi c’è, ovviamente, la riforma elettorale. Il Brescellum, dall’estensore grillino Giuseppe Brescia, s’è già inceppato. Del resto, è solo uno dei tanti pantani in cui galleggiano i giallorossi. Da mesi, Nicola Zingaretti, segretario del Pd, implora gli alleati: «Serve un patto di legislatura». Una specie di replica del contratto di governo siglato con la Lega nel 2018. Temi, date, obiettivi. Insomma, la mitologica agenda. Vaglielo a spiegare però ai Cinque stelle, impegnatissimi ad accelerare la loro implosione. Nessun leader, gruppi parlamentari allo sbando e alle porte un bel congressone. Pardon: gli Stati generali. Come quelli celebrati a Villa Panphilj, lo scorso giugno, da Conte.

Il premier, allora, chiamò a raccolta le «menti brillanti» del Paese. Per concludere, dopo giorni di illuminanti discussioni, con l’ennesimo catalogo: taglio dell’Iva, riduzione del cuneo fiscale, voucher per le aspiranti manager. E il solito dossier Autostrade: «Va chiuso immediatamente». A Ponzano Veneto, nel quartier generale dei Benetton, ancora sogghignano.

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