Home » Attualità » Esteri » Il Far West della Cina è in Myanmar

Il Far West della Cina è in Myanmar

Il Far West della Cina è in Myanmar

Questo Stato asiatico, ricco di terre rare, fa gola a Pechino, che ne depreda le risorse in modo illegale, approfittando di un governo centrale debole e in continua lotta con fazioni ribelli. Mentre l’Occidente rischia di dipendere fortemente da un Dragone sempre più leader di mercato.


Si scrive Myanmar, si legge espansionismo cinese. Nelle mire di Pechino in Asia non c’è soltanto la nota isola di Taiwan, il Paese che detiene il monopolio mondiale di microprocessori. Oggi anche il tribolato Stato asiatico retto da una giunta militare fa gola al Dragone, che sempre più famelico continua ad accaparrarsi terre rare per alimentare il suo predominio economico mondiale.

Ecco perché la superpotenza ha sostenuto il golpe del febbraio 2021, e perché ha trasferito in Myanmar numerosi esperti d’intelligence sotto mentite spoglie di geologi, ingegneri e biologi: per aiutare il potere dittatoriale a sopravvivere alle violente proteste della popolazione multietnica e per replicare la cosiddetta «grande muraglia digitale della Cina», ovvero il più complesso sistema di controllo e censura odierno della rete globale, che filtra e blocca ogni comunicazione con all’interno le parole «proibite» dal regime.

Si capisce meglio questa penetrazione quando si considera che a muovere le ruote di una Tesla, o anche le pale di una turbina eolica in qualche porto italiano, sono dei magneti realizzati grazie ai minerali estratti da una dittatura feroce, la stessa che ha incarcerato il premio Nobel Aung San Suu Kyi, e che sta devastando senza porsi problemi la regione settentrionale del Kachin, disboscando le foreste e avvelenando l’acqua. È la nuova dottrina di Pechino: far dimenticare al mondo i disastri ambientali provocati ndegli ultimi decenni – dal lago tossico di Baoutou, la più grande città industriale nella Mongolia Interna e uno dei maggiori fornitori di terre rare al mondo, all’estrazione mineraria illegale nella provincia dello Jiangxi, dove dalle montagne di argilla rossa sporgono ancora i tubi di gomma a devastare il paesaggio – e ripulirsi la coscienza andando a sporcare altrove. Questo per essere più attrattivi nei confronti dell’Occidente, e continuare a sfruttare il suolo asiatico senza far inorridire l’opinione pubblica.

«La soluzione ai suoi problemi ecologici Pechino l’ha trovata nel vicino Myanmar» dice l’ingegnere minerario Giovanni Brussato. «Qui negli ultimi sette anni le importazioni sono aumentate, secondo i numeri del database Comtrade delle Nazioni Unite, da circa 300 tonnellate del 2015 a 35 mila tonnellate del 2020. È uno sfruttamento condotto dopoché la Cina ha adottato nel 2015 nuove normative ambientali, le quali hanno reso meno redditizio estrarre minerali pregiati dal proprio sottosuolo».

In un ambiente dalle leggi labili, senza diritti politici e privo di standard ambientali come il Myanmar del post-golpe, risulta ben più semplice gestire gli interessi commerciali spesso in mano a miliziani locali e, più in generale, disporre a proprio piacimento delle risorse naturali nel Paese, che si concentrano prevalentemente lungo la frontiera con la Cina, tra le aree di Pangwa e appunto lo Stato di Kachin. «L’estrazione effettuata nella zona da società cinesi o comunque riferibili a Pechino è del tutto illegittima» prosegue Brussato. «Non esistono neanche veri dati commerciali ufficiali sull’industria mineraria delle terre rare in quella regione: sono dozzine i permessi di esplorazione rilasciati a imprese minerarie che si possono definire opachi, quando non falsi o falsificati, anche perché spesso sono riconducibili solo a prestanome. Non è solo la gestione illegale del Myanmar verso la Cina a creare questa situazione ma anche il fatto che il confine tra lo Stato di Kachin e la Repubblica Popolare sia altamente poroso, praticamente inesistente».

Inoltre, il controllo del governo è tutt’altro che granitico e, in questa polverizzazione del potere centrale, per Pechino è agevole siglare accordi sottobanco con i gruppi che dettano legge davvero sulle regioni più impervie, che vanno a nord dalle vette elevate che s’innestano nella catena dell’Himalaya, alle foreste tropicali che digradano a meridione. Sono molte, infatti, le milizie indipendentiste che lottano per l’autodeterminazione.

Il «Paese delle Mille pagode», infatti, è uno dei meno sviluppati al mondo, che sconta anche gli appetiti dei narcotrafficanti asiatici, essendo il primo produttore di oppio e di eroina del pianeta, insieme all’Afghanistan (la Banca Mondiale ritiene che la quota della popolazione che vive in povertà sia praticamente raddoppiata dal 2019 a oggi).

Dal 4 gennaio 1948 – anno in cui l’allora Birmania divenne indipendente dal Regno Unito – sono una ventina le fazioni etniche in conflitto con il governo centrale che si oppongono alla capitale Naypyidaw e dispongono come meglio credono delle numerose risorse naturali del Paese e di una quota del redditizio traffico di droga. Dal 2015, l’esercito è riuscito a firmare accordi di pace e relativi cessate il fuoco con dieci fazioni ribelli. Un’altra metà però ha di nuovo imbracciato le armi: è accaduto dopo il golpe del primo febbraio 2021 contro Aung San Suu Kyi, che ha posto fine a un decennio di transizione democratica. Il processo avviato dalla leader dell’opposizione che da sempre lotta per i diritti umani nel suo Paese – e che, proprio per questo, è da lungo tempo detenuta ed è stata appena condannata a ulteriori cinque anni per corruzione nel primo di una serie di processi farsa – è naufragato: ma non senza il placet di Cina e Russia, che non hanno mai commentato il golpe militare né la destituzione della presidente, nonostante lo sdegno ufficiale dell’Onu.

Così oggi i poteri legislativi, esecutivi e giudiziari sono stati trasferiti al comandante in capo delle forze armate, il generale Min Aung Hlaing, mentre il generale Myint Swe è stato nominato presidente ad interim. L’esercito ha giustificato le proprie azioni denunciando frodi i cui esiti avevano decretato vincitore con l’83 per cento dei voti guarda caso la Lega nazionale per la democrazia (Ndl), il partito di San Suu Kyi. Ma Pechino ha guardato dall’altra parte anche durante la «pulizia etnica» da parte dei generali della popolazione Rohinyga, la consistente comunità di fede musulmana che vive soprattutto nello Stato di Rakhine, al confine con il Bangladesh e che è è stata colpita da attacchi sistematici, distruzioni di villaggi e decine di migliaia di morti.

Tutto questo il potente vicino di casa del Myanmar lo ha fatto in ragione di costi ambientali non più sostenibili entro le proprie frontiere: meglio importare dunque dai vicini di casa. Per il resto, il vantaggio cinese in materia di terre rare è manifesto. Commenta Antonio Selvatici, docente di intelligence economica all’Università di Roma Tor Vergata: «All’inizio degli anni Trenta del secolo scorso nella Mongolia, a Bayan Obo, fu scoperto il più importante giacimento di terre rare del mondo: da qui proviene il 45 per cento della fornitura mondiale funzionale alla produzione di ferro e acciaio. Seguirono la scoperta di giacimenti nello Shandon e nel Sichuan; in poco più di mezzo secolo la Cina è diventata uno dei maggiori produttori mondiali».

Ora che la fotografia è chiara, due sono i rischi per l’Occidente: dipendere fortemente da un unico fornitore di materie prime e prepararsi alla possibilità che la Cina, seguendo una politica di valorizzazione dei prodotti di base in patria, diminuisca le esportazioni piegando il mercato a proprio vantaggio. «In passato sono stati commessi molti errori che hanno permesso a Pechino di diventare leader di mercato, consentendo acquisizioni di giacimenti o significative partecipazioni societarie anche in aziende negli Stati Uniti» puntualizza Selvatici. Che aggiunge: «la Cina non sarebbe riuscita a battere l’Europa e Usa se il motore a combustione interna fosse rimasto il cuore strategico degli autoveicoli».

Infatti, adesso che il Dragone punta a produzione e diffusione globale dell’auto elettrica – innalzando sin dagli anni Novanta una barriera verso gli investitori stranieri e mirando anche alla conquista militare di Paesi strategici per accaparrarsi le risorse del sottosuolo – il pericolo per le economie occidentali di dipendere da Pechino è concretissimo.

© Riproduzione Riservata