Una fiammante Porsche Cayenne, concessa in comodato per un anno e mezzo. E poi una Mercedes e un’altra Porsche, comprate a prezzi di favore. O la Range Rover, rivenduta allo stesso prezzo dell’acquisto. L’ex giudice di Caltanissetta, ora in servizio a Palermo, adorava le auto di lusso. E i due imputati, titolari di una concessionaria, l’hanno assecondato. Uno di loro era stato accusato di favoreggiamento a Cosa nostra: assolto da quel magistrato e poi condannato in appello. Una delle ultime decisioni del Consiglio superiore della magistratura racconta l’ennesima storia di intrighi e passioni: il giudice che avrebbe ottenuto macchine e vantaggi «da due imprenditori coinvolti in procedimenti penali da lui trattati». Apocalittica la conclusione: mina la «credibilità dell’intero ordine giudiziario». Più accomodante la conseguenza: stipendio e carriera bloccati per due anni. Può serenamente proseguire il suo lavoro nel tribunale palermitano.
La riforma e l’Alta Corte disciplinare
C’è poco da sorprendersi. I supposti illeciti dei magistrati sono valutati dalla sezione disciplinare del Csm. La riforma della giustizia, però, prevede di trasferire questa funzione a un’Alta corte. «Quando un giudice domani dovesse sbagliare, finalmente se ne assumerà anche la responsabilità» dice la premier, Giorgia Meloni. Il presidente dell’Anm, Cesare Parodi, in un’audizione al senato ha invece esplicitato il rovello della categoria: «Come si fa a valutare fino in fondo il momento patologico, se non si conosce nel dettaglio quotidianamente quella che è la fisiologia del sistema e del funzionamento?». Insomma: solo un togato dovrebbe giudicare un togato. Ma il problema, appunto, sembra proprio questo. «L’Alta corte garantirà maggiore indipendenza» assicura Carlo Nordio, il ministro della Giustizia, «Sarà un organismo composto da elementi altamente qualificati». Era già prevista nella Bicamerale voluta da Massimo D’Alema, quasi trent’anni fa. «È un’idea che nasce per superare un sistema correntizio che tutti definiscono deviato e inaccettabile» aggiunge Nordio. Il presidente della Repubblica continuerà a presiedere i due Csm previsti dalla riforma, mentre l’Alta corte sarà indipendente: «Per evitare di conferirgli responsabilità incompatibili con la sua carica».
Un referendum campale sulla giustizia
La battaglia per il referendum s’annuncia campale. Il nuovo tribunale supremo è uno dei punti più sgraditi dalla categoria. Eppure, i dati sono eloquenti. L’aneddotica si spreca. I magistrati non pagano quasi mai. E le rarissime volte in cui capita, le sanzioni sembrano simboliche. Un mese fa, per esempio, la Corte d’appello di Brescia conferma la condanna a otto mesi a Fabio De Pasquale, già aggiunto a Milano, e Sergio Spadaro, ex pm della procura meneghina: hanno nascosto le prove nel processo Eni. S’è concluso nel 2022 con l’assoluzione di tutti gli imputati. De Pasquale, comunque, resta un mito assoluto per i giacobini tricolore. Riecheggia ancora lo scalpo più leggendario. È l’unico pm che è riuscito a far condannare Silvio Berlusconi, per la frode fiscale sui diritti televisivi. Poi, però, arriva la nemesi: «Hanno utilizzato solo ciò che poteva giovare alla propria tesi» scrivono i giudici bresciani, «tralasciando chirurgicamente i dati nocivi». Ovvero: quelle prove che dimostravano come il principale teste d’accusa fosse un interessato calunniatore.
Decisioni clamorose del Csm
La sentenza è stata preceduta da una pirotecnica decisione del Csm, che aveva deciso di non confermare il delicatissimo incarico di aggiunto: «Risulta dimostrata l’assenza in capo al dottor De Pasquale dei prerequisiti della imparzialità e dell’equilibrio, avendo reiteratamente esercitato la giurisdizione in modo non obiettivo né equo rispetto alle parti nonché senza senso della misura e senza moderazione». Comunque, niente paura: l’irreprensibile continua a fustigare: rimane un agguerrito pm della procura milanese. Come Spadaro, del resto: adesso lavora per la procura europea antifrode.
Anche Gianfranco Colace resta un alfiere della magistratura di Torino, nonostante la decisione del Csm dello scorso marzo: trasferimento a Milano, passaggio al civile, perdita di un anno di anzianità. Gli contestano cinquecento intercettazioni all’ex senatore del Pd, Stefano Esposito. Viene rinviato a giudizio ancor prima della richiesta di autorizzazione a Palazzo Madama per l’uso di 151 telefonate. L’inchiesta ipotizza uno scambio di favori con un imprenditore. Il processo dura sette anni. Alla fine, Esposito è prosciolto da ogni accusa. Colace, qualche mese dopo, viene sanzionato. Il 18 luglio scorso sono pubblicate le motivazioni: «Grave violazione di legge determinata da negligenza o ignoranza inescusabile». Un mese fa, però, il Csm capovolge il suo giudizio. Niente passaggio a Milano. Colace deve restare a Torino. Le audizioni della prima commissione, che si occupa delle incompatibilità, sono decisive. Il procuratore generale, Lucia Musti, aveva spiegato: «È stato un po’ la punta di diamante per le indagini sui reati amministrativi». Nel suo glorioso passato, c’è anche l’indagine per smog contro gli ex sindaci della città, Piero Fassino e Chiara Appendino, nonché il vecchio governatore, Sergio Chiamparino. Finita con il proscioglimento di tutti gli imputati.
Numeri impietosi sulle azioni disciplinari
«I magistrati d’Italia sono giudicati eccellentissimi. Non esiste al mondo, credo, un organismo in cui i suoi componenti sono sempre considerati bravissimi» dice Nordio. La Procura generale della Cassazione rivela gli ultimi dati. Nel 2024, sono stati segnalati 1.715 magistrati: quasi due terzi dei casi risultano già archiviati. «Il 95 per cento e passa finisce nel nulla» aggiunge il ministro. In effetti, l’anno scorso si contano ottanta azioni disciplinari, mentre il Csm ha emesso novanta sentenze. Insomma, cifre piuttosto esigue. A quel punto, la giustizia è almeno uguale per tutti? Macché: 38 archiviazioni, 28 assoluzioni, ventiquattro condanne. E le pene, che peraltro possono essere impugnate, non sembrano esemplari. Dieci censure: ovvero, «dichiarazioni formali di biasimo». Buffetti, praticamente. Ancora: otto perdite d’anzianità e quattro sospensioni dalle funzioni. Infine, la sanzione più grave: la rimozione. Arrivata soltanto in due casi: l’1,8 per cento dei provvedimenti.
Ritardi record e sanzioni minime
Le accuse della Procura generale e del ministero non sono quisquilie, però. Nell’archivio della sezione disciplinare vengono pubblicate alcune «decisioni storiche». C’è il giudice che in cinque anni deposita 29 sentenze civili «con ritardo superiore al triplo del termine previsto». Per altre 119, la lentezza è persino maggiore: «Superiore a 200 giorni dalla data di riserva». Il considerevole record spetta a quella consegnata dopo 2.555 giorni: sette anni, più o meno. Il giudice, davanti ai colleghi del Csm, si difende: carenze d’organico e problemi di salute dei familiari. Ma ha «già riportato in passato sei condanne per la medesima fattispecie». La toga, dunque, viene punita: due anni di «sospensione dalle funzioni» e trasferimento nella sezione civile. Dove, magari, incrocerà quell’altro collega che non ha depositato 350 sentenze, «in un tempo superiore al quadruplo del termine di legge». Con lui, però, il Csm è più clemente: si limita a una censura.
Abusi su minori dimenticati per anni
Illuminante anche la storia del pm che seppellisce per lustri le accuse di abusi sessuali e maltrattamenti su alcuni bambini. L’inchiesta viene aperta a maggio 2004. Gli orchi erano già stati identificati mesi prima, «come da annotazione di Polizia giudiziaria in atti». Ma solo a novembre 2010 vengono indagati. Passano altri dieci anni. Il pubblico ministero chiede l’archiviazione: «Dopo più di sedici anni di totale inerzia investigativa» spiega la sentenza. Aggravante: i ragazzini, aggiunge, avevano «reso dichiarazioni univoche e coincidenti». Così com’erano ritenute veritiere, in un altro procedimento, le accuse di una quattordicenne sui presunti abusi sessuali dello zio. Il fascicolo viene assegnato a ottobre 2010. La richiesta di rinvio a giudizio arriva dieci anni dopo: a novembre 2020. Il pm viene tacciato di «negligenza inescusabile». Eppure se la cava con sei mesi di sospensione e il trasferimento al tribunale civile.
Quando la giustizia arriva troppo tardi (o non arriva)
Tra le decisioni pubblicate, c’è poi quella sul magistrato che tarda a eseguire l’arresto di un uomo. La condanna a tre anni è del 2020. Diventa irrevocabile a dicembre 2021. L’ordine di esecuzione, però, arriva solo a giugno 2022. Il condannato resta uccel di bosco per sei mesi. Nel frattempo, viene arrestato per duplice omicidio. Il Csm non infierisce: blanda censura. Nonostante «la condotta dell’incolpato abbia provocato conseguenze concrete gravissime». Ma c’è pure il giudice che lascia in galera una persona per quasi due anni, nonostante la custodia cautelare scaduta da 578 giorni, «con grave violazione del codice procedura penale». Quasi due annetti in più in carcere. Colpa anche della cancelleria. Vabbè, ancora un volta, basta una censura.
Conflitti d’interesse, amori e favoritismi
Non manca il giudice in palese conflitto d’interesse: «Consapevolmente ometteva di astenersi dai procedimenti di concordati preventivi». Con gli avvocati delle società, aveva però «un lungo e consolidato rapporto di amicizia»: vacanze, cene, telefonate quotidiane. Quei professionisti, spiega la commissione disciplinare, «hanno beneficiato di ruoli nelle procedure più rilevanti del tribunale», ricevendo «compensi complessivi pari a più di un milione di euro ciascuno». Al magistrato coinvolto, il Csm decide di togliere un anno di anzianità.
Vengono narrate le gesta anche di chi dimostra piglio opposto. Il giudice che sentenzia prima delle conclusioni dell’avvocato. Una condotta che «cagionava un irreparabile nocumento all’imputato e al suo difensore». Processo annullato, dunque. Il giudice si difende: reazione acuta da stress. Solo l’ennesima censura, comunque. In rassegna, c’è pure il giudice sciupafemmine: con le avvocatesse conquistate, discuteva procedure fallimentari. Poco male. Perdita di anzianità di quattro mesi. E avrebbe dovuto astenersi quell’altro giudice, che fronteggia in aula per 12 volte l’amata avvocatessa. Un’altra censurina. L’amore trionfa sempre.
Il catalogo infinito delle assoluzioni
Assai più corposo, ovviamente, è il catalogo delle assoluzioni. Quasi sterminato. Le decisioni esemplificative vengono riportate, ogni anno, nel massimario della sezione disciplinare. Eccone alcune, pubblicate nel 2025.
C’è il marito esemplare: scrive al collega che ha indagato la moglie, perorando l’innocenza dell’amata consorte. Caso isolato e poco rilevante, derubrica il Csm. C’è l’implacabile fustigatore: tiene in carcere l’imputato sei mesi di troppo. Del resto, spiegano, l’avvocato non ha chiesto la revoca e quel giudice vanta una carriera irreprensibile. C’è l’estensore di commenti sessisti sui social, a corredo della propria foto in toga. L’importante, comunque, è che non siano accompagnati dalla richiesta «di ottenere benefici o ingiusti vantaggi per sé o per altri». E c’è il feroce anti governativo: su Facebook si lascia andare a tre post offensivi contro un ministro. Sarebbe un illecito disciplinare, certo. Ma anche lui, alla fine, viene graziato. I suoi dileggi, dettaglia il massimario, non hanno avuto «alcuna eco mediatica» e non hanno intaccato «in alcun modo la figura professionale dell’incolpato». Nemmeno un richiamo. Neppure un rimbrottino. L’importante è che gli insulti restino tra amici.
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