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Polvere di 5 Stelle

Con il via libera ai contributi pubblici al partito, il Movimento ha completato l’abiura dei dogmi del passato, quelli di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. In una manciata di mesi Giuseppe Conte ha impresso una svolta che moltiplica solo gli scontenti. ha cambiato il volto.


L’ultima giravolta è arrivata con il gelido inverno. «La regola dei due mandati non è mai stata messa in discussione e non si tocca» giurava a dicembre 2018 l’allora capo politico, Luigi Di Maio. «Né quest’anno, né il prossimo, né mai. È certo come l’alternanza delle stagioni». Tre anni dopo l’asse terrestre mantiene la sua inclinazione, mentre l’ultima lapidaria regola del Movimento si trasforma in pulviscolo. Giuseppe Conte annuncia la caduta dell’ennesimo totem. Alle prossime elezioni, il leader pentastellato avrà bisogno di riempire le liste dei pochi fedelissimi già in carica. E poi, il Parlamento potrebbe ormai privarsi di un funambolo del potere come Giggino o di un fedele servitore della patria quale Roberto Fico, presidente della Camera e alleato del giurista di Volturara Appula?

Nominato lo scorso agosto, in soli quattro mesi Conte ha frantumato quel che resta dei dogmi. I contributi pubblici ai partiti erano lo sterco del diavolo. Beh adesso, previa consultazione con gli iscritti, il capo politico annuncia il trionfale ingresso degli ex francescani della politica nel rassicurante mondo del 2 per mille. Il «Vaffa day» sembra ormai una pellicola in Super 8. E d’altronde, sarebbe stato impensabile pure immaginare un leader azzimato e traccheggiatore come Giuseppi.

Pochette e doroteismo. Il futuro è l’abiura del passato. Per dileggiare l’antitetico Silvio Berlusconi, il fondatore Beppe Grillo diede fondo al repertorio da comico: «Psiconano», «Al Tappone», «Testa d’asfalto». Il Cavaliere era il male assoluto. Adesso, l’avvocato del popolo spiega che «ha fatto anche cose buone e ha interpretato la voglia di rinnovamento di una parte del paese». E l’interessato, che sogna il Quirinale, da settimane vezzeggia i vecchi nemici. «Si può cambiare idea» gongola Di Maio. «Anch’io l’ho fatto tante volte».

Uh, quale eufemismo… Il tartufesco ministro, vero capintesta dei Cinque stelle, ha variato più convincimenti che grisaglie. Lo scorso maggio, nientemeno, ha voluto porgere accorate scuse a Simone Uggetti, ex sindaco Pd di Lodi assolto in appello dall’accusa di turbativa d’asta. Uno di quegli incolpevoli su cui s’erano accaniti alle Amministrative del 2016. Fu una «gogna mediatica», si rammarica l’attuale ministro degli Esteri, alimentata da modalità «grottesche e disdicevoli». Becero giustizialismo, addio. Che ci volete fare? Allora Giggino era il capo dei guappi antistema, adesso guida le feluche.

Ha deglutito senza singulti pure la riforma della prescrizione, che archivia gli ultimi tintinnii manettari. E come dimenticare il canagliesco viaggio a Parigi, assieme all’arcigno Alessandro Di Battista, per incontrare Christophe Chalençon, leader dei Gilet gialli che sognava «la guerra civile»? O la sua passionaccia per il «lungimirante» Nigel Farage, il leader più euroscettico della storia? Adesso, informa Giggino, è «doveroso aderire al Pse». Ovvero ai socialisti europei, il gruppo più euroentusiasta di sempre.

È la casa a Bruxelles del Pd. «Il partito di Bibbiano», «il Pdmenoelle», «i pidioti»: anche con loro Grillo ha sfoggiato il suo estro. Assieme ai suoi epigoni, ora però tuba in patria con i vituperati compagni. Giuseppi, ex premier per caso, sogna che la fortuita compagine giallorossa diventi un’alleanza con i crismi. Una di quelle oscenità clientelari che nel 2013, durante lo «Tsunami Tour», Grillo esecrava: «Non pensino di fare inciucetti e inciucini. Gli altri faranno un governissimo pdmenoelle-pdelle. Noi stiamo fuori. Nel non-statuto, e negli impegni sottoscritti dai nostri neoparlamentari, sono esclusi in modo categorico accordi con i partiti». Lo scomparso Gianroberto Casaleggio, padre del reietto Davide, rincarava: «Nessuna alleanza, un giorno il Movimento governerà da solo».

Tempi gloriosi. Ai grillini erano interdetti persino confronti tv e interviste ai giornali. Niente contaminazioni, né tantomeno dissensi. In questo arrembante clima andava in onda lo streaming, altro rimosso caposaldo, con Pierluigi Bersani. Il M5s che rifiutava ogni alleanza, umiliando l’allora leader del Pd. Stesso copione nel 2014, ancora in diretta. Grillo contro Matteo Renzi. Atroci dileggi. Chiusura totale.

Enrico Letta non porta rancore. Anzi, il lungimirante segretario dem prova ora a imbullonare Giuseppi alla cadrega, offrendogli una candidatura per le suppletive. L’interessato declina. Teme la scoppola, infieriscono Renzi e Carlo Calenda, dioscuri centristi. «Voglio entrare in Parlamento dalla porta principale» assicura invece Conte. Ma alla primavera 2023, termine della legislatura, tra trappole e ostacoli rischia di non arrivare.

Del resto lo scorso giugno, alla vigilia della sua tormentata nomina, il fondatore già seppelliva l’usurpatore: «Non può risolvere i problemi del Movimento, non ha la visione politica». Certo, poi s’è fatta di necessità virtù. I due incrociano le forchette per siglare il patto della spigola, a Marina di Bibbona. Ma l’impietoso giudizio dell’Elevato, impelagato nelle ultraterrene beghe giudiziarie del figliolo Ciro, non cambia. I nostalgici gli chiedono invano di riprendere il mano i Cinque stelle, trasformati rapidamente in vecchia consorteria. Uno vale uno? Macché. Lo «statuto giuseppino» è il definitivo approdo alla primissima repubblica. «I partiti sono morti» tuonava Grillo. Conte, doroteo in sedicesimi, riformula. Occorrono: presidente, vicepresidenti, consiglio nazionale, comitati tematici, comitato di garanzia, collegio dei probiviri, sedi locali, dipendenti, tesoriere, scuola di formazione.

Dovevano aprire il Parlamento «come una scatoletta di tonno», sono finiti a sbranare i saporiti filetti in purissimo extravergine. Più attaccati al potere dei colleghi vituperati nell’ormai antologico «Cozza day»: «Devono andarsene tutti coloro che si sono trincerati all’interno del palazzo. Abbarbicati come cozze ai loro privilegi» concionava Grillo. Per non parlare dei rimborsi. Nel «Comunicato politico numero quarantacinque», pubblicato sul blog, il fondatore rimarcava: «Ogni eletto percepirà un massimo di 3 mila euro di stipendio, il resto dovrà versarlo al Tesoro, e rinunciare a ogni benefit parlamentare». A quei tempi, bisognava rendicontare ogni centesimo. Adesso, finalmente, todos caballeros. Basta un obolo al Movimento. Così fan tutti: da destra a sinistra.

Insomma, s’è avverata l’atroce profezia del Dibba: «Diventeremo come l’Udeur, buono per la gestione di poltrone e carriere». Il Che Guevara di Roma Nord, dopo mesi di scaramucce, è pronto a ributtarsi nella mischia alla volta dei delusi. Assieme a lui c’è Casaleggio junior, epurato dal fu avvocato del popolo. La nuova «organizzazione politica» si chiama Up-Su la testa. È l’ottava scissione negli ultimi mesi: da Italexit a Partecipazione attiva. E si tenta di riesumare perfino l’Italia dei Valori, antenata dei grillini. Comunque sia: un addio dopo l’altro, dal 2018 la truppa parlamentare è passata da 339 a 233 eletti. Continua inarrestabile pure il declino nei voti: dal 34 per cento delle urne al 15 per cento degli attuali sondaggi.

«È tutto finito» berciava Grillo nei comizi. L’annuncio, rivolto allora agli avversari, è ora l’epitaffio della sua creatura. Polvere di Cinque stelle. Ogni convincimento s’è ribaltato. Come sull’alta velocità tra Lione e Torino. Bandiera imprescindibile. Poi il governo giallorosso, sull’altare degli accordi con i francesi, inverte la rotta. Da No Tav a Sì Tav, testacoda personificato dallo stesso Conte. Bastano pochi mesi: fermamente contrario, possibilista, infine a favore. Uomo di diritto, ma anche di rovescio. E la Tap, il gasdotto che attraversa l’Adriatico e approda sulle coste pugliesi? «Con il governo del Movimento 5 stelle quest’opera la blocchiamo in due settimane!» ruggiva Dibba assieme alla futura ministra del Sud, Barbara Lezzi. Sei mesi dopo l’arrivo di Giuseppi a Palazzo Chigi, giunge però il nullaosta.

E il Ponte sullo Stretto? «È una presa per il culo» inveiva Grillo. «Un’allucinazione mentale». Una cosa «degli anni Settanta», utile solo al Pd e alla mafia. Lo scorso maggio Giancarlo Cancelleri, viceministro alle Infrastrutture e leader pentastellato in Sicilia, rettifica trepidante: «Dieci anni e vedremo il ponte sullo Stretto di Messina».

Così, l’unico barlume di coerenza è sembrato, apparentemente, quel fugace editto radiotelevisivo. «Il Movimento non farà più sentire la sua voce nella tv pubblica» sbraita il leader in pochette. Un ritorno al vecchio urlo contro la lottizzazione, «si sono mangiati la Rai»? Macché. Tutto il contrario. Lo scorno per essere stati esclusi dalla tornata di nomine. Giuseppi però lestamente ritratta. «È uno specialista in penultimatum» ironizza Grillo. Poi, aggiunge: «Conte è un gentleman». Altro, inequivocabile, segno dei tempi. Qualche anno fa, sarebbe stato il più feroce degli insulti.

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