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Restaurazione araba

Restaurazione araba

Il plebiscito che dà pieni poteri al presidente tunisino Kais Saied è la prova di come siano fallite le aspirazioni democratiche delle «primavere» di 10 anni fa. E anche in Libia, Egitto e Siria a dominare sono il caos politico o i leader assoluti che hanno ritrovato legittimazione.


In Tunisia torna l’uomo forte al comando dopo il fallimento della democrazia scaturita dalla primavera araba. A Tripoli, nel caos, la gente scende in piazza e assalta i palazzi del potere sventolando le vecchie bandiere verdi di Gheddafi. In Egitto Abdel Fattah al-Sisi è ancora più generale al potere del suo predecessore Hosni Mubarak, caduto per la rivolta di piazza. In Siria Bashar al Assad è sopravissuto alla terribile guerra civile che ha distrutto il Paese con buone speranze di venire «riabilitato» nel consesso internazionale.

Dalla primavera araba di 11 anni fa ben presto diventata gelido o sanguinoso inverno, si è passati alla restaurazione, al ritorno al passato? Panorama lo ha chiesto a militari e analisti come Alessia Melcangi, docente associata all’Università Sapienza di Roma che collabora con l’Atlantic Council, centro studi di Washington. «È una restaurazione o, meglio, una controrivoluzione di nuovi regimi che hanno caratteristiche anche più marcate rispetto a quelli precedenti» spiega. «Le “primavere” non sono riuscite a gestire il “dopo”, con l’uscita dalla crisi».

L’ultimo esempio è la Tunisia, l’unico Stato che negli ultimi dieci anni sembrava avere adottato una fragile democrazia. Il presidente Kais Saied, ex giurista, un anno fa ha mandato a casa primo ministro e parlamento. E il 25 luglio con un referendum costituzionale ha varato un «super presidenzialismo» con pieni poteri, simile a un’autocrazia, con neanche il 30 per cento di votanti alle urne che hanno votato con un vero plebiscito (94,6 per cento). Così il capo dello Stato ha maggiore controllo su governo e magistratura oltre a essere, di fatto, inamovibile. Un sondaggio 2021 rivelava che i due terzi dei tunisini associavano la democrazia a instabilità, corruzione ed economia a rotoli. «La Tunisia è un esempio del ritorno al passato, della restaurazione. E dimostra la malattia profonda di questi Paesi arabi che non riescono a uscire dall’involuzione dell’uomo forte che, va ammesso, gode di un certo supporto popolare» osserva Arturo Varvelli esperto dell’Istituto degli studi di politica internazionale. E la «restaurazione» ci riguarda da vicino.

I tunisini, con 7.612 migranti, sono per nazionalità il gruppo più numeroso sbarcato in Italia quest’anno. E per la Tunisia passa il gasdotto Transmed, conosciuto anche con il nome di Enrico Mattei, che collega l’Algeria all’Italia. Proprio agli algerini si è rivolto il presidente del Consiglio Mario Draghi per sganciarci dalla dipendenza energetica della Russia. Il totale fallimento della crescita democratica araba è evidente in Libia dove il governo di Tripoli, del premier ad interim Abdulhamid Dabaiba, ufficialmente riconosciuto, è stato sfiduciato dal Parlamento. E si fronteggia con l’esecutivo di stabilità nazionale designato dall’assemblea dei rappresentanti di Tobruk di Fathi Bashagha, ex ministro dell’Interno. In mezzo, il generale Khalifa Haftar che in Cirenaica gode dell’appoggio dei russi.

La Tripolitania, invece, è un feudo turco. A inizi luglio, la popolazione esasperata da continui black out, crisi economica e politica e insicurezza è scesa in piazza in varie città dando alle fiamme i palazzi istituzionali. A Tripoli sono tornate a sventolare le bandiere verdi di Gheddafi. A intermittenza, le milizie contrapposte si sparano nella capitale e le elezioni previste e annunciate sono un miraggio. «La Libia è la prova che il tentativo di cambiare di dieci anni fa e l’intervento occidentale sono falliti» sottolinea Marco Bertolini, già generale dei paracadutisti, esperto di crisi internazionali. «Uno dei motivi della crisi sono le mancate elezioni. Si era presentato anche il figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, che avrebbe avuto buone chance. C’è una forte nostalgia del passato dato che il presente è sicuramente peggiore».

L’Italia pare essersi ritirata, negli ultimi mesi, da una crisi che però riguarda i nostri interessi nazionali. Non solo il gasdotto sottomarino che parte da Mellita arriva a Gela, in un paese dove le fazioni bloccano i pozzi. Solo a fine luglio si è tornati a estrarrre un milione e 200 mila barili al giorno. Per non parlare dell’ondata di sbarchi: a inizio agosto erano già 42.039, 38 per cento in più del 2021 e tre volte tanto il 2020. In luglio si è toccato il picco, con 13.803 arrivi, e le Ong fanno sempre la parte del leone con 8.535 migranti recuperati in mare e trasferiti in Italia (il 31 per cento del flusso è dalla Libia). «L’Egitto è il caso di restaurazione più di tutti gli altri Stati, con al-Sisi che pare un Mubarak da giovane, che, però, nell’ultimo periodo era più aperto rispetto al regime attuale» aggiunge Varvelli.

L’ex generale che da capo di Stato maggiore ha spodestato nel 2013 il governo dei Fratelli musulmani a furor di popolo sta affrontando l’emergenza economica provocata dalla guerra in Ucraina. Conflitto e pandemia hanno colpito l’Egitto in tre settori cruciali. L’energia con l’impennata del prezzo del petrolio ha avuto un effetto immediato sui costi delle importazioni e del carburante sovvenzionato dal governo. Due anni di Covid hanno cancellato il turismo e adesso mancano i russi e gli ucraini che frequentavano in massa l’Egitto. L’aumento generale delle materie prime preoccupa il governo e potrebbe riflettersi sull’insicurezza alimentare a causa della forte dipendenza dal grano russo e ucraino. Le rivolte del pane hanno scosso o travolto più di un regime arabo. «La guerra in Ucraina e il difficile sblocco del grano è una bomba atomica per paesi come Tunisia e Egitto» spiega Melcangi.

I casi di Giulio Regeni e Patrick Zaki sembrano passati in secondo piano rispetto alla «caccia» al gas. L’Eni ha stretto accordi sempre più stretti per le forniture dall’Egitto e lo stesso al-Sisi dichiara che «è pronto a mitigare l’impatto della crisi» in Europa con il gas naturale del Mediterraneo orientale. «L’unico sopravvissuto alle primavere arabe, a un prezzo di sangue e violenza inaudita, è Bashar al-Assad» dice Varvelli. Dal 2011 al 2021 sono stati uccisi 306.887 civili, secondo le Nazioni Unite, senza contare i combattenti che raddoppierebbero il numero. Il governo siriano controlla il 60 per cento del territorio, ma punta alla «riabilitazione» internazionale. Dal 2019 sono state riaperte diverse ambasciate europee a Damasco, compresa quella italiana a livello di incaricato d’affari, non ancora di ambasciatore.

All’inizio del conflitto ucraino, il 18 marzo, è passata sotto silenzio la visita ufficiale del presidente siriano ad Abu Dhabi per la prima volta dal 2011, non a Mosca o Teheran, alleati storici. Gli Emirati, che come altri Stati arabi avevano appoggiato la rivolta armata in Siria, hanno riaperto l’ambasciata a Damasco. E adesso sono i principali sponsor di Assad. Sul piatto ci sono anche i 400 miliardi di dollari stimati per la ricostruzione. «Il Medioriente si sta muovendo nel riallineamento delle alleanze e la normalizzazione non solo in Siria» conferma Melcangi. «Una riabilitazione di Assad è molto probabile. Forse non a brevissimo, ma il primo passo sarà il suo rientro nella Lega araba». Il prossimo summit è previsto a novembre e si discuterà se riaccogliere il leader siriano, atto che sancirebbe la definitiva restaurazione siriana e il fallimento delle primavere arabe.

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