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Ciao ciao, Sánchez

Ciao ciao,  Sánchez

Dopo sei anni di governo, il bilancio del premier socialista spagnolo è in grave deficit: l’economia dà segni di ripresa, ma le sue scelte durante il Covid hanno fatto esplodere il debito pubblico e non riescono a contenere la disoccupazione. Alle prossime elezioni (quelle amministrative del 28 maggio e quelle politiche del 10 novembre) si pronostica la vittoria del centrodestra e un’amara sconfitta per lui.


«Adelante, Pedro, con juicio si puedes». Cioè: «Avanti, Pedro, con giudizio se puoi». La frase che Alessandro Manzoni mette in bocca al gran cancelliere spagnolo di Milano, Antonio Ferrer, che si rivolge al cocchiere mentre la carrozza cerca di fendere una folla minacciosa per gli effetti della carestia e della peste del 1629, oggi si adatta bene a un altro Pedro, Sánchez, e ai suoi tanti guai. Il leader del Partito socialista operaio spagnolo (Psoe) governa indisturbato a Madrid dal 2018, quando dopo i sette anni trascorsi dal centrodestra al palazzo della Moncloa cadde l’esecutivo guidato da Mariano Rajoy, allora a capo del Partito popolare (Pp). Ma il 2023, per Sánchez, è l’anno della paura: il prossimo 28 maggio si terranno le elezioni amministrative e 6 mesi dopo, il 10 novembre, si voterà per le politiche. E al momento tutti i sondaggi lo danno sconfitto. Sicuramente. Disastrosamente. Irrimediabilmente.

Altro che «Avanti, Pedro…». Le rilevazioni degli ultimi sei mesi garantiscono una brutale retromarcia, per il premier socialista, tanto che i giornali ormai arrivano a pronosticare, malgrado abbia solo 51 anni, la fine della sua avventura politica. A vincere entrambe le elezioni sarà il Pp, il principale partito d’opposizione che dall’aprile 2022 è guidato da Alberto Núñez Feijóo, che di anni ne ha 61, e ormai non passa giorno senza attaccare frontalmente la sinistra al governo, accusandola di non saper guidare il Paese e di averlo sprofondato in modo irresponsabile in un mare di spesa pubblica.

In base alla media ponderata dei principali sondaggi, elaborata dal sito Politico.eu, alla fine di marzo il Psoe è crollato al 26 per cento dei consensi, mentre i suoi alleati populisti di Podemos sono fermi al 10. Sull’altro fronte, il Pp di Feijóo vola invece oltre il 36 per cento e i suoi alleati di Vox, più a destra, sono stabili al 15. Con questi numeri, grazie al sistema elettorale spagnolo che si basa su collegi piccoli e premia le forze politiche più forti, il centrodestra unito in Parlamento oggi otterrebbe tra 190 e 200 deputati, salendo così ben oltre la soglia dei 176 seggi necessari per formare una maggioranza.

Ad avere azzoppato il premier socialista e i suoi compagni è un insieme di elementi. Da oltre un anno, Sánchez è finito sulla graticola per quello che i giornali spagnoli chiamano lo «scandalo Pegasus», dal nome del software israeliano impiegato per intercettare e spiare una sessantina di dirigenti politici catalani: indignati, i movimenti indipendentisti di sinistra che dal 2019 garantivano un appoggio esterno al governo, cioè il Partito socialista di Catalogna (13 seggi) e Uniti per la Catalogna (8 seggi), se ne sono ritratti. A Sánchez non è bastato cacciare la responsabile dei servizi segreti, Paz Esteban López. E non è servita nemmeno la scoperta che anche il premier fosse finito sotto controllo. Il torbido caso «Pegasus» ha gettato ombre irrisolte soprattutto su di lui, ombre che hanno finito per diventare macchie indelebili.

Eppure l’economia spagnola, negli ultimi tempi, non è andata affatto male. Nel 2022 il Prodotto interno lordo è aumentato del 4,3 per cento, una crescita che ha superato di un punto abbondante la media dell’Unione europea (+3,2), e anche quest’anno le stime del Fondo monetario internazionale prevedono una crescita dell’1,2 per cento, contro un incremento medio dello 0,7 nell’Ue (per intenderci, nel 2023 il Fmi dà l’Italia in calo dello 0,2 per cento e la Germania dello 0,3).

È vero che la corsa dell’economia della Spagna non riesce a far rientrare la sua disoccupazione, che da troppo tempo resta inchiodata a un preoccupante 13 per cento. Non ha certo giovato la controproducente riforma del mercato del lavoro, varata nel 2022 dalla vicepremier e ministro del Lavoro Yolanda Díaz, già di Podemos e fondatrice della nuova estrema sinistra di Sumar (cioè sommare, mettere insieme) che ha limitato e reso molto più costosi per le aziende i contratti a tempo determinato, cui ora si può ricorrere nei soli lavori stagionali e nei picchi di produzione.

Il dato più negativo e grave, per l’economia spagnola, arriva comunque dal debito pubblico, che negli ultimi tre anni si è gonfiato come un soufflé. Tra il gennaio 2019 e il dicembre 2022, il rosso di Madrid è aumentato da 1.210 a 1.500 miliardi di euro: dopo quattro anni di «cura Sánchez», insomma, pesa un quarto in più. Una volta tanto è stata più brava persino l’Italia, che in questo campo non è mai stata la migliore della classe: il nostro debito a gennaio 2019 valeva 2.409 miliardi, lo scorso dicembre è arrivato a 2.762, con un aumento di «appena» il 14,6 per cento. L’indebitamento spagnolo è il frutto di una spesa pubblica smodata, in linea con l’ideologia economica interventista del Psoe e con quella ancor più demagogica di Podemos. Contro l’inflazione, Madrid ha scialacquato miliardi: dal luglio 2022, per fare un esempio, i treni regionali sono totalmente gratuiti. E sull’alta velocità viene praticato uno sconto del 50 per cento, sia pure per un massimo di 16 viaggi. Per non parlare dei biglietti dei trasporti urbani, ridotti di un terzo, mentre dallo scorso febbraio perfino gli autobus interurbani sono diventati gratis.

Nato come misura contro l’inflazione, anche il tetto imposto nel 2022 al costo dell’energia ha assorbito troppa spesa: quando il prezzo del gas è esploso, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, il governo Sánchez ha stabilito che l’elettricità prodotta con quel combustibile – che in Spagna per nove decimi arriva dall’estero – non dovesse costare a imprese e famiglie più di 40 euro a megawattora: da allora, le aziende energetiche vengono compensate dallo Stato per il differenziale che pagano sui mercati esteri. Si stima che la misura, nel solo 2022, sia costata oltre 15 miliardi.

La sinistra spagnola non s’è negata nulla, neanche una sua versione del famigerato Reddito di cittadinanza italiano. Per fortuna, l’ideazione non è stata affidata a un Luigi Di Maio locale, bensì al ministro tecnico della Sicurezza sociale, José Luis Escrivá: un economista formato tra la Banca di Spagna e la Banca centrale europea. Nel 2020 Escrivá ha varato l’Ingreso minimo vital, destinato in teoria a 2,3 milioni di abitanti con redditi sotto 17.700 euro annui, in cambio di lavori socialmente utili. L’assegno è stato rivalutato nel 2022 per l’inflazione, oggi va da un minimo di 565 a un massimo di 1.244 euro mensili. Nel febbraio 2023, la sinistra di Podemos recriminava che la burocrazia del «Vital», come lo chiamano gli spagnoli, l’avesse fatto percepire ad appena 1,6 milioni di destinatari. Escrivá ha replicato che per fortuna c’erano stati i controlli, perché «1,5 milioni di famiglie» l’avevano richiesto senza averne alcun bisogno. Risultato? In Spagna «el Vital» non avrà avuto la meglio sulla disoccupazione, ma almeno a Madrid è costato soltanto 7-8 miliardi di euro: un terzo di quanto ha versato l’Italia per il Reddito.

Da mesi, intanto, Feijóo aspetta le elezioni sparando contro «le riforme truffa» della sinistra, contro la sua inclinazione allo sperpero. Nel mirino ha appena messo il nuovo sistema previdenziale deciso dalla maggioranza: un aumento dell’età pensionabile da 65 a 67 anni, in gran parte vanificato da esenzioni e deroghe; e una crescita degli assegni minimi (oggi a 11.701 euro annui) finanziato incrementando dello 0,6 per cento i contributi sugli stipendi più alti, quelli oltre i tremila euro lordi mensili, ponendolo a carico delle aziende. Mentre Yolanda Díaz, alla testa di Sumar si candida premier contro di lui, questa è l’ultima mossa demagogica e pauperistica di Sánchez. Se non gli riesce, la sua era sarà davvero finita. n

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