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Erdogan, il presidente che vuole farsi califfo

Erdogan, il presidente che vuole 
farsi califfo

Dall’Ucraina al Medio Oriente.RecepTayyp Erdogan punta a un reale potere globale. Che preoccupa tutti, compresi i suoi alleati islamici.


L’orrore di Gaza ha avuto un ulteriore effetto: il leader turco Erdogan ha preso a cavalcare l’onda islamista e ad attaccare Israele. A ingranare la retromarcia non ci pensa proprio. Non è detto che questo irrigidimento drastico figurasse fin dall’inizio nei suoi piani. È probabile invece che, a ridosso del centenario della repubblica turca, Erdogan avesse riorganizzato la sua agenda strategica, concentrandosi in particolare su Caucaso e Mar Nero. L’iniziativa di Hamas ha cambiato i suoi calcoli. Ecco perché. Da tempo, Erdogan aveva recuperato la dottrina panturanica nella sua più recente formulazione di Ahmet Davutoglu, eminenza grigia del pensiero strategico turco. L’esempio più vistoso di questa «spinta verso Oriente» di Erdogan è il sostegno offerto agli azeri nella recente invasione del Nagorno-Karabakh. Ultimamente, poi, Erdogan aveva gioco facile a rosicchiare spazi strategici ai russi nel Mar Nero, approfittando della guerra russo-ucraina e della posizione geografica della Turchia.

A ogni buon conto, la metaforica scrivania di Erdogan era già ingombra di mappe e cambiali. La Turchia, infatti, è sì potenza esuberante sul piano strategico, ma fragile sul piano dei conti e della tenuta economica. Proprio per tale ragione, la soluzione escogitata dai vertici di Ankara era quella di gestire un problema per volta, evitando cioè di tenere troppi fronti aperti contemporaneamente. Non a caso, Erdogan aveva ormai per anni cercato di levigare le asperità con le monarchie del Golfo, e anche di normalizzare i rapporti con Israele, in un percorso di avvicinamento che passava anche da intese sui giacimenti di gas del Mediterraneo orientale. Vistosi tagliato fuori dagli accordi sul «corridoio strategico Imec indo-arabo-mediterraneo» celebrati al summit G20 di Nuova Delhi, il presidente non aveva mancato di manifestare a gran voce il suo disappunto.

Dinanzi al precipitare degli eventi a Gaza, Erdogan ha accantonato subito l’impostazione di «distensione selettiva». I suoi video mentre arringa folle oceaniche attaccando Israele ci restituiscono piuttosto l’immagine di un leader intrappolato nella sua maschera teatrale. Erdogan infiamma la piazza islamista perché la conosce e, assai probabilmente, perché la teme. Deve infatti la propria ascesa al potere, così come il suo consolidamento in patria e fuori porta, al nazionalismo intriso di islamismo e alla costante ricerca di vicinanza con differenti e potenti sigle religiose, dai sufi ai Barelvi fino ai Deobandi. Erdogan si vuole protettore dell’Islam nel mondo, in uno strano impasto tra geopolitica (il «panturanismo», che abbraccia lo spazio dalla Bosnia fino allo Xinjiang) e suggestione religiosa (il ripristino del Califfato), che si sommano allo stato di membro Nato sui generis e armato fino ai denti.

Ovviamente se il presidente turco riapre la valvola dell’islamismo, ciò determina pesanti problemi. Gli Stati Uniti, per esempio, hanno di recente segnalato tramite la presenza di proprie truppe in Armenia l’esistenza di «linee rosse» invalicabili. Per Washington non è in sé un male che la Turchia spinga verso Est, perché il panturanismo in linea di principio è in collisione con le Vie della Seta cinesi, ma non vuole che ne facciano le spese gli armeni già scaricati da Mosca. Nel Levante, inoltre, sono i curdi a poter contare sul sostegno americano. Ora Washington non può accettare che Ankara tuoni contro Israele, e men che meno che getti benzina sul fuoco dell’Islam politico in uno sforzo coordinato con il proprio gemello siamese, il Qatar. Non a caso negli scorsi giorni Meshal bin Hamad Al Thani, l’ambasciatore qatarino negli Usa, ha firmato un articolo sul Wall Street Journal per respingere ogni addebito e presentare Doha come honest broker, mediatore irreprensibile, nelle complesse vicende mediorientali. La posizione del Qatar, si badi, è di forte interesse anche per l’Italia, che ha in Doha un grosso fornitore di gas.

Erdogan non preoccupa solo Stati Uniti e il resto dell’Occidente, Germania in testa con il suo milione e trecentomila residenti turchi, ma anche Russia e India. Si prenda il Dagestan, dove in un aeroporto una massa inferocita ha da poco messo in scena una raccapricciante caccia all’ebreo. Politicamente, il Dagestan è territorio russo. Culturalmente, tuttavia, la popolazione sconta un’evidente egemonia turca, che si estende ad ampie zone di Caucaso settentrionale. Se Erdogan soffia sul fuoco, agli occhi del mondo Putin non è più padrone in casa propria. Anche il premier indiano Modi, a pochi mesi dalle elezioni e da sempre alle prese con l’enorme minoranza musulmana indiana, scruta preoccupato il Presidente che vuole farsi califfo. n

* L’autore, Francesco Galietti è un esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar.

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