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La contesa di New York

La contesa di New York

Il 22 giugno ci saranno le primarie per la poltrona da primo cittadino della Grande Mela. Che dopo il dominio incontrastato (e controverso) di De Blasio torna a fare gola. E scatena una vera guerra tra «gang» politiche, come nel famoso film di Martin Scorsese…


Grillini a stelle e strisce, irriducibili deblasiani, trumpisti di ferro, angeli di quartiere, zar della differenziata e dei trasporti, veterani attivisti e professori fuori gara. C’è il tutto esaurito nella corsa per la poltrona di sindaco di New York, dopo otto anni di incontrastata seppur controversa reggenza di Bill De Blasio. Soprattutto sulla sponda democratica, dove si contano ben otto candidati. A dirla tutta, nelle prime battute la campagna per City Hall si è svolta sotto traccia, con scarsa eco mediatica oscurata dalle vicende di Washington, dalla corsa alle vaccinazioni e da una disaffezione nei confronti della politica locale causata dalla gestione del primo cittadino uscente. Da qualche settimana però le cose sono cambiate: con l’avvicinarsi delle primarie del 22 giugno, New York ha dato una scossa alla campagna. Al punto da accendere un confronto tra aspiranti sindaci che sovente si è tradotto in scontro tra fronde politiche e distretti di appartenenza, ancor prima che tra repubblicani e democratici. Sfide e duelli per la conquista del Campidoglio che si consumano tra street ed avenue come nelle piazze mediatiche, i cui tratti, talvolta caricaturali, evocano una sorta di parodia della pellicola cult di Martin Scorsese Gangs of New York.

A sparigliare le carte in casa democratica è stata la discesa in campo di Andrew Yang, outsider di origini taiwanesi che si era fatto notare alle primarie di Usa 2020 con la crociata sul «dividendo di libertà» e la lotta per la liberazione dai robot. Yang puntava a introdurre un reddito minimo universale di mille dollari al mese per tutti gli americani dai 18 ai 64 anni, e denunciava il rischio di ricadute occupazionali derivante dai processi di automazione, specie dall’intelligenza artificiale. Istanze dal sapore pentastellato in salsa yankee, con la differenza che il 46enne, prima di provare l’ebbrezza della politica, è stato imprenditore, filantropo e fondatore della no-profit «Venture for America».

Questo ne fa un pragmatico, tanto che da Washington ha ripiegato su New York proponendo una versione più contenuta del reddito minimo, da finanziare con i 98 miliardi di dollari incassati ponendo fine alle esenzioni fiscali di grandi proprietà come il Madison Square Garden. Paga il prezzo dell’inesperienza: ha tacciato la città di inefficienze nei trasporti, la cui titolarità è però dello Stato di New York, e ha proposto la creazione di centri di accoglienza per le vittime di violenze domestiche, che già esistono.

L’essere outsider però non dispiace, così come le sue origini taiwanesi in risposta alle reiterate violenze di cui è vittima la comunità asiatica negli Stati Uniti e in particolare nella City. Caratteristiche che gli hanno permesso di incassare un sostegno trasversale tale da proiettarlo nel ruolo di «front-runner» Dem.

Almeno sino a qualche giorno fa, quando i sondaggi hanno registrato il sorpasso di Kathryn Garcia. Una storia americana la sua: abbandonata alla nascita, è stata adottata da una coppia di origine irlandese che l’ha cresciuta a Park Slope, polmone verde di Brooklyn, con quattro tra fratelli e sorelle, in una famiglia multirazziale. Il cognome ispanico lo deve all’ex marito Jerry Garcia (da cui ha avuto due figli), che ha deciso di mantenere anche dopo il divorzio. Kathryn inizia la carriera come stagista nel dipartimento di gestione dei rifiuti di New York e nel 2014 ne diventa assessore, posizione che mantiene sino al 2020, mettendosi in evidenza per le battaglie sulla gestione sostenibile, a partire dalla raccolta differenziata.

A interporsi tra Garcia e Yang è Eric Adams, 60enne afroamericano, attuale presidente del distretto di Brooklyn. Adams, figlio di un’addetta alle pulizie del Queens e di un agente, ha servito per vent’anni nel dipartimento di polizia ed è stato senatore dello Stato di New York. Da insider si è sempre battuto contro la violenza delle forze dell’ordine e a favore di diritti civili e minoranze. Quasi tre decenni fa, quando si mise in testa di diventare sindaco della Grande Mela, iniziò a scrivere un diario di osservazioni sulla governance locale, e da allora ha riempito 26 taccuini. Ha tutti i requisiti per diventare primo cittadino, se non fosse per alcune simpatie poco condivise, come quella per Louis Farrakhan, il leader della Nation of Islam, e per l’ex pugile Mike Tyson, manifestata dopo la sua condanna per stupro nel 1992.

A metà classifica c’è Scott Stringer, 61 anni, progressista moderato e revisore di conti nella giunta De Blasio, che si batte per il controllo delle armi e per i diritti della comunità Lgbtq+. Le sue quotazioni sono scese dopo che un’ex volontaria lo ha accusato di averla aggredita sessualmente 20 anni fa. Gli elettori non hanno gradito e dai sondaggi sembra imminente il sorpasso da parte di Maya Wiley, 57enne afroamericana, super consigliera di de Blasio col sogno di diventare la prima donna nera sindaca di Nyc. A tallonarla è Shaun Donovan, 55 anni, già ministro dell’Urbanistica nell’amministrazione di Barack Obama, un passato nella giunta di Michael Bloomberg. Punta tutto sui trasporti, «l’elemento chiave del piano perché sono il centro nevralgico della città». Anche il suo profilo sarebbe giusto per il ruolo di sindaco, ma è una candidatura che non decolla. I newyorkesi hanno le idee chiare: «Non stiamo eleggendo un curriculum, ma una persona».

In una città dove i democratici surclassano i repubblicani con un rapporto di forza di 1 a 6, il vincitore del 22 giugno sarà anche il probabile sindaco. E di fronte a otto contendenti, le primarie Dem si trasformano in un tutti contro tutti, come appunto in uno scontro tra gang. Andrew Yang ed Eric Adams, per esempio, se le suonano di santa ragione scambiandosi accuse e chiedendo l’apertura di indagini sulla reciproca raccolta fondi.

Stessa cosa sulla sponda repubblicana, dove i candidati sono due, Curtis Sliwa e Fernando Mateo: per loro la corsa alla nomination significa fare terra bruciata attorno al rivale. Nel primo duello tv si azzuffano su tutto a parole e, quando viene spento il microfono, a gesti di disarmante eloquenza. Al netto del concordare sull’emergenza sicurezza e sulla necessità di «refund the police» invece del «taglio dei fondi» chiesto da Black Lives Matter, si attaccano su tutto. «Sei De Blasio travestito da repubblicano» tuona Sliwa in riferimento a presunti legami finanziari tra Mateo e il sindaco uscente. «Curtis sei un pagliaccio, c’è tanta sporcizia sul tuo conto che ti ci puoi immergere» replica elegantemente il rivale. Il quale si definisce un vero repubblicano perché ha votato Trump, al contrario di Sliwa, che con il tycoon ha avuto «un rapporto di odio e amore».

E pensare che i due candidati erano amici, e si conobbero quarant’anni fa quando Fernando, impiegato di una tappezzeria, mise la moquette a casa di Curtis. Mateo, 63 anni, ristoratore del Bronx, attivista e politico, è nato nella Repubblica Domenicana e punta a diventare il primo sindaco ispanico di New York. È meglio conosciuto per il programma «Toys for guns» quando negli anni Novanta offriva giocattoli in cambio di armi. Ottenne la restituzione di tre mila pistole, un modello replicato in altre città tanto da farne un eroe sui media nazionali. Campione nella raccolta di fondi, la sua proposta principale è il programma di lavoro «Alpha Track», per tenere gli studenti lontano dai guai.

Sliwa, 67 enne di origini italiane, ha fondato i Guardian angels nel 1979 dopo aver lavorato come manager notturno in un McDonald’s nel Bronx. Le pattuglie dai baschi amaranto hanno conquistato i titoli dei giornali per i loro servizi di ordine e soccorso nelle strade di tante città. Lui stesso è stato ferito cinque volte negli anni Novanta, arrestato almeno 77 volte, ha testimoniato al processo di John A. Gotti, il boss della mafia, e si è pure sposato quattro volte. Era un conduttore radiofonico e ha guidato il Reform party dello Stato di New York prima di diventare repubblicano l’anno scorso. Il suo cavallo di battaglia elettorale, al di là della sicurezza, è la riforma delle tasse sulla proprietà.

Di fatto non si tratta di due politici di professione (e questo racconta molto del microcosmo repubblicano newyorkese), ma di due cittadini con percorsi diversi seppur non lontani, legati da un’antica amicizia sacrificata dinanzi agli altarini della politica, che ne ha fatto due capi banda in guerra. «Perdi il tuo tempo in metropolitana» ironizza Mateo sul fatto che Sliwa ha trascorso 24 ore di fila nella subway per fare campagna elettorale.

«Tu, al contrario di sei milioni di newyorkesi, nemmeno sai cosa è la metro visto che neanche vivi in questa città» ribatte l’avversario puntando l’indice sul villino di Westchester del rivale. Il quale a proposito di case non lesina colpi bassi: «Curtis abiti in 320 metri quadri con 13 gatti». «Fake news» replica l’angelo dal basco amaranto. «Sono 15 e li ho salvati dalla strada». La resa dei conti è alle porte.

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