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La sfida multipla del sultano

La sfida multipla del sultano

Il 14 maggio Recep Tayyip Erdoğan affronta le elezioni presidenziali e mai come questa volta la sua conferma è in dubbio. L’inflazione è fuori controllo, il devastante terremoto ha dimostrato l’inconsistenza delle sue politiche per la casa, l’opposizione è forte… Ma detronizzarlo sarà difficile.


Non ha usato caramelle, ma soldi, in contanti. Recep Tayyip Erdogan, durante una puntata elettorale nelle zone devastate dal sisma, ha letteralmente distribuito denaro ai bambini per richiamare la generosità di tutti i nonni con i nipoti. Il messaggio è che il presidente turco, al potere da 20 anni, più che il padre della patria oramai è il nonno che l’accompagna con capacità e saggezza. Questa volta, però, rischia di perdere le elezioni presidenziali e parlamentari indette per il 14 maggio.

«È la prima volta che l’opposizione può realisticamente sperare di farcela» spiega a Panorama l’ambasciatore Carlo Marsili, che ha rappresentato l’Italia in Turchia per sei anni. «I sondaggi danno in vantaggio, anche se non enorme, sia il candidato presidente Kemal Kiliçdaroglu, sia la sua coalizione. Ma c’è ancora un mese di tempo e bisogna vedere quale sorpresa tirerà fuori Erdogan, che controlla il 90 per cento dei media e tramite il suo partito è infilato dappertutto, dalle università alle forze armate». Gli ultimi sondaggi danno il rivale Kiliçdaroglu in vantaggio di quattro punti, che non sono abbastanza, però, per vincere al primo turno. Nel ballottaggio Erdogan avrebbe spazio di manovra per restare in sella. Fino a ora «le elezioni sono sostanzialmente libere» continua Marsili. «Lo abbiamo visto con le amministrative, che hanno consegnato le principali città del Paese all’opposizione».

La coalizione di sei partiti uniti nell’Alleanza per la nazione, che vuole detronizzare il «sultano» è variegata: dai socialdemocratici che si ispirano al padre della patria, Kemal Ataturk, al centrodestra laico fino ai fuoriusciti dall’orbita governativa come l’ex ministro degli Esteri, Ali Babacan e l’ex premier Ahmet Davutoglu. Nonostante bizze e divisioni il candidato comune è Kiliçdaroglu, soprannominato il Gandhi turco o lo «zio della democrazia» per i modi quasi ascetici e per aver guidato un marcia di protesta pacifica contro l’arresto di giornalisti e politici che non vanno a genio al potere. Il presidente del partito Popolare repubblicano è deciso a tornare «a un forte sistema parlamentare».

Un parziale handicap è che fa parte della setta sciita Alevi, in un Paese a stragrande maggioranza sunnita. «Erdogan è un politico scaltro e di lungo corso» spiega Daniele Lazzeri, presidente del centro studi geopolitici e di economia internazionale Il Nodo di Gordio. «Un presidente che ha saputo intercettare in passato le istanze laiche del kemalismo e che, col tempo, ha progressivamente accompagnato il suo popolo verso gli antichi fasti religiosi e geopolitici del mondo ottomano». Spesso facendo della questione curda un collante identitario.

Ma questo gruppo etnico, che comprende circa il 18 per cento della popolazione in Turchia, rischia di essere rilevante al momento del voto. «I curdi possono essere l’ago della bilancia» analizza ancora Marsili. «Il loro partito ha ottenuto il 12 per cento dei voti. Non hanno presentato un candidato presidenziale e appoggiano di fatto quello dell’opposizione». Selahattin Demirtas, leader del partito Popolare democratico filocurdo, Hdp, è dietro le sbarre dal 2016 con accuse di terrorismo. Dal carcere ha fatto sapere che «passo dopo passo la Turchia si sta muovendo verso un regime autoritario. Se Erdogan vincesse le elezioni il Paese diventerà una dittatura».

Ma nonostante il controllo e l’influenza governativa a tutti i livelli e le purghe seguite al fallito colpo di Stato del 2016, che ha decapitato soprattutto le forze armate, la Turchia non è la Corea del Nord. «Si respira un clima di grande incertezza a tutti i livelli» fa notare un imprenditore italiano attivo nel Paese. «Non è così scontato che Erdogan vinca di nuovo, anche se ha sette vite. Molti si permettono sui social critiche accese al partito al potere. Prima non osavano e in fondo anche questo è un segnale di democrazia». A parte qualche colpo di pistola contro le sedi dei partiti di opposizione e non solo, che fanno parte dell’usanza storica, lo sfidante del sultano deve fare attenzione alle trappole dei media vicini al partito al potere Giustizia e sviluppo (Akp). Un video di Kiliçdaroglu che calpesta con le scarpe un tappeto da preghiera ha sollevato una tempesta. In realtà non era proprio così, ma l’«incidente del tappeto» è stato alimentato a dismisura dai media filo Erdogan.

Le spine nel fianco del presidente sono la disastrosa situazione economica e gli effetti boomerang del terremoto. L’inflazione ha toccato il 50,51 per cento in marzo, in calo rispetto al mese precedente, ma non abbastanza. I prezzi sono continuati a salire e il presidente ha puntato sull’illusione di crescita imponendo alla banca centrale la politica dei tassi che continuano a scendere provocando una pesante svalutazione della moneta locale. La lira turca è precipitata: dalla quasi parità con il dollaro oggi vale un centesimo. «La gente fatica ad arrivare a fine mese perché i prezzi sono alle stelle» conferma Marsili, che conosce bene la situazione quotidiana anche perché sua moglie è turca. «Alla crisi economica si aggiunge il disastro del terremoto che ha dimostrato come i grandi costruttori legati al governo per anni avessero messo in piedi case senza rispettare le norme antisismiche». La campagna elettorale di Erdogan si concentra nelle zone distrutte, che piangono oltre 57 mila vittime, promettendo massicci progetti nelle infrastrutture e soprattutto un tetto sulla testa nel giro di un anno a chi ha perso l’abitazione. Un’impresa ciclopica per qualsiasi presidente e governo: la Banca mondiale ha stimato i danni provocati dal sisma in 34,2 miliardi di dollari. L’economista turco, Mustafa Sönmez, teme che per la ricostruzione «potrebbero volerci almeno 100 miliardi».

Dal punto di vista delle relazioni internazionali Erdogan continua a muoversi con scaltrezza, e in vista delle elezioni ancora di più. Quando l’ambasciatore americano ha incontrato il rivale del Sultano alle presidenziali Kiliçdaroglu, ha colto la palla al balzo per scagliarsi contro il diplomatico, annunciando che «impartirà una lezione agli Stati Uniti», tema caro all’elettorato nazionalista. «È indubbio che ha riportato la Turchia a un ruolo internazionale che prima non aveva» fa notare Marsili. «Si muove nell’interesse del Paese anche se non coincide con quello degli americani, o li irrita. Nel conflitto ucraino è l’unico che sia riuscito a ottenere qualcosa con l’accordo sul grano e lo scambio di prigionieri». Alla Svezia, che ancora non cede sugli oppositori che ospita, continua a opporre il veto per l’ingresso nella Nato.

«Non è vero che sia così vicino ai russi» sostiene l’ambasciatore. «È un’amicizia di puro interesse». Il Cremlino cerca di ricucire lo strappo fra Ankara e Damasco segnato della guerra civile. Erdogan ha tutto l’interesse a riprendere buoni rapporti per mandare a casa gli oltre tre milioni di profughi siriani. Al contrario dell’Italia, sono nel mirino dell’opposizione a cominciare dai partiti di centro sinistra che ne denunciano il peso economico e sociale. «Da almeno un decennio la Turchia sta facendo ciò che non riesce a fare l’Italia. Politica estera attraverso la leva economica e commerciale» osserva Lazzeri. «Lo fa da cruciale membro della Nato che mantiene, a differenza nostra, la sovranità nazionale come linea guida».

Il 27 aprile, alla cerimonia di apertura della centrale nucleare di Akkuyu, costruita dai russi, potrebbe arrivare il presidente Vladimir Putin nella sua prima visita all’estero dall’invasione dell’Ucraina in un paese Nato. Erdogan usa con disinvoltura anche la forza militare: il 7 aprile un attacco di droni turchi sull’aeroporto di Suleimaniyeh nel Kurdistan iracheno ha cercato di eliminare Mazloum Abdi, comandante delle forze curde in Siria, scampato all’attacco. Soner Cagaptay, del centro studi Institute for Near East Policy di Washington, non ha dubbi: «Erdogan lotta per la sopravvivenza politica. Deve vincere le elezioni a qualunque costo. In caso di sconfitta ha paura di venire processato o addirittura perseguitato, lui con i suoi familiari. Cercherà la vittoria con le buone o con le cattive».

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