«Ci attendiamo le destre a valanga» dice un funzionario dell’Europarlamento commentando le liste dei candidati che dovranno occupare o rioccupare gli spazi dell’emiciclo del Palazzo Altiero Spinelli di Bruxelles. «Lo schema è sempre il solito: ci sarà un’alleanza Popolari, Socialisti e Liberali per mantenere la maggioranza in parlamento, ma questa volta sarà estremamente risicata. Con la conseguenza che, come minimo, a ogni voto potrebbe ballare». Dunque, la cosiddetta maggioranza Ursula (Ppe, S&d e Rinnovamento) che sinora ha disegnato le politiche comunitarie non appare così solida alla vigilia di un appuntamento più che mai cruciale per i destini dell’Unione Europea.
Il funzionario non cita direttamente i sondaggi, ma basta leggere i dati snocciolati dallo European Council on Foreign Relations per capire la situazione attuale. Al prossimo Parlamento europeo, secondo le rilevazioni dell’istituto, il Partito Popolare scenderebbe intorno ai 173 seggi dagli attuali 178; 131 andrebbero invece ai socialisti (che attualmente ne hanno 141) e 86 andrebbero ai liberali di Rinnovare l’Europa, che oggi ne ha 101. Trenta seggi in meno, come minimo, che verrebbero strappati dalle forze di destra che si oppongono alla maggioranza Ursula e alla stessa architettura europea.
I partiti populisti e antieuropei sono già oggi in testa ai sondaggi in nove Stati membri dell’Ue, tra cui Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Francia, Ungheria, Italia, Paesi Bassi, Polonia e Slovacchia, e si posizioneranno al secondo o terzo posto in altri nove Paesi, tra cui Bulgaria, Estonia, Finlandia, Germania, Lettonia, Portogallo, Romania, Spagna e Svezia, come evidenziato dai calcoli del Council.
Di questo pacchetto di seggi, ben 98 sarebbero quelli assorbiti da Identità e democrazia (il gruppo della Lega in Italia, dell’AfD in Germania e di Marine Le Pen in Francia), che nell’attuale Parlamento ne conta appena 58; l’Ecr, il gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei dove si posiziona Giorgia Meloni, oggi ha 67 seggi, ma si prevede salga almeno a 85, mentre i Verdi scenderebbero a quota 61 (dai 71 seggi attuali). Solo la Sinistra minoritaria sembra guadagnare punti: salirebbe a 44 seggi rispetto ai 38 di adesso.
Gli euroscettici al governo dell’Unione?
«Fatti due calcoli, una vera maggioranza non c’è al momento. E se l’AfD tedesco dovesse andare a valanga, visto che è dato a doppia cifra secondo tutti gli indicatori, una coalizione di destra potrebbe avvicinarsi al pareggio; e questo porterebbe come minimo allo stallo nelle decisioni dell’Eurogruppo o persino alla conquista della maggioranza dei seggi nel Parlamento europeo» commenta l’Eurofunzionario. E, considerato che il prossimo presidenza del Consiglio dell’Ue andrà all’Ungheria, «l’anno politico europeo potrebbe partire con grandi novità e sorprese».
Gli euroscettici al governo dell’Unione? «Uno dei paradossi della democrazia è proprio il fatto che le stesse istituzioni che garantiscono la pluralità di voci possono essere smantellate da dentro per creare qualcos’altro».
Già perché l’architettura su cui si è fondata sinora l’Unione dei 27 «è difettosa e va modificata» dice sempre la stessa fonte. «Prova ne sia la fuga di Londra, anche se in quel caso ci sono ragioni interne più che comunitarie. Vero è, però, che tutti sentono la necessità di cambiare volto alle istituzioni europee».
Tutto è possibile in un mercato elettorale enorme come quello comunitario, con variabili importanti ma anche con alcune tendenze comuni a tutti i 27 Stati membri. «L’elettorato europeo è tendenzialmente poco mobile, con pochi che da sinistra si butterebbero a destra, ma passare dal centro al centrodestra è tutta un’altra storia. E se la campagna elettorale delle attuali opposizioni dovesse essere particolarmente efficace, si corre il rischio che vadano al potere coloro i quali vogliono smantellare gli stessi princìpi cardine e fondativi dell’Europa unita».
Molto dipenderà anche da chi sarà designato a guidare il nuovo corso politico, in un’epoca in cui guerre e cicli economici incerti hanno reso l’Europa il proverbiale vaso di coccio tra vasi di ferro, nonostante l’Ue corrisponda al mercato più ricco al mondo cui manca soltanto. «Ma la gente dimentica che l’Ue resta il mercato più ricco al mondo, e dunque servirebbe un’Europa ancora più unita e forte per risollevare le sorti dei singoli Paesi che la compongono».
Mario Draghi alla guida dell’Europa
A questo proposito, si lavora alacremente nei corridoi asettici delle istituzioni comunitarie a Bruxelles. Perché, se anche la guida dell’Unione dovesse mantenersi nelle mani dei tre partiti che oggi compongono la maggioranza Ursula, dal Belgio si sente provenire sempre più forte un’aria di cambiamento. Anche istituzionale. Come noto, infatti, il cortocircuito delle candidature – vedi il tira e molla di Charles Michel, attuale presidente del Consiglio Ue che si è prima candidato in concorrenza a Ursula Von Der Leyen, e poi ha deciso di ritirarsi – lascia presagire novità importanti all’orizzonte per i vertici delle nostre istituzioni.
La candidatura di Michel aveva suscitato molte critiche perché, se eletto, avrebbe dovuto dimettersi entro luglio, quattro mesi prima della fine naturale del suo mandato (fine novembre). I capi di Stato e di governo dell’Ue avrebbero dovuto così eleggere il successore in anticipo oppure avrebbero dovuto nominare un nuovo presidente per soli quattro mesi. Nell’eventualità, avrebbero potuto anche affidare un mandato straordinario e provvisorio al premier ungherese Viktor Orbán, che dal primo luglio sarà alla guida della presidenza semestrale di turno del Consiglio europeo. «Il che ovviamente sarebbe stato un problema per molti» commenta il funzionario.
Ma in ogni caso queste potrebbero essere le ultime elezioni europee con il «vecchio modello». Lo stesso Mario Draghi, che i rumors vorrebbero al posto di Michel per la guida del Consiglo o al posto di Von Der Leyen alla guida della Commissione, ha tracciato la linea futura. We need to become a State, «dobbiamo diventare Stato» ha dichiarato l’ex presidente della Bce, attivissimo in Europa come e più di un tempo. «Il modello di crescita (precedente) si è dissolto e dobbiamo reinventare un modo di crescere, ma per farlo dobbiamo diventare uno Stato» ha dichiarato Draghi pochi giorni fa.
Secondo l’ex premier italiano, il mercato europeo «è troppo piccolo» e dunque dobbiamo creare «fondi europei per finanziare la difesa e la lotta al cambiamento climatico. Poi abbiamo bisogno di una politica estera coordinata, perché i ministri degli Esteri si vedono, ma non sono d’accordo. Dobbiamo pensare a una maggiore integrazione politica, a un vero Parlamento europeo, per iniziare a pensare che siamo (sia) italiani che europei».
Un vero e proprio manifesto politico che punta a rafforzare l’euro e l’Unione Europea nell’arena geopolitica globale. Un pensiero condiviso anche dal governatore di Banca d’Italia Fabio Panetta, che da Riga, in Lettonia, ha descritto meglio la ricetta: titoli comuni, euro digitale, un mercato dei capitali efficiente e davvero integrato, per sfidare la concorrenza anzitutto cinese.
E poi serve un esercito comune, vero e ultimo anello mancante per fare dell’Europa un solo Stato e un solo popolo. Ma per preparare il terreno a questi grandi cambiamenti occorre una leadership chiara e forte.
«Mario Draghi qui è considerato da molti l’uomo della provvidenza, ma per ergerlo al ruolo di traghettatore di un Euro Stato, per fare dell’Europa un’unione compiuta e matura, serve anzitutto che alle prossime elezioni vincano con nettezza le forze che lo sostengono. E questo, al momento, ancora non si vede» conclude il funzionario dell’Europarlamento.
Mancano meno di cinque mesi all’appuntamento con la storia e, vista da Bruxelles, la sensazione generale è che dal 6 al 9 giugno si decideranno non soltanto i seggi da assegnare a ciascun partito, ma le stesse regole che definiranno il ruolo della democrazia nel mondo. Perché, come dice un acuto osservatore delle dinamiche comunitarie quale Roberto Arditti, direttore editoriale di Formiche.net, «la democrazia sta passando di moda e quindi bisogna aggiornarla nella sua capacità di reggere la sfida del nostro tempo».
