Chi c’era non ci sarà più. Fine di un’epoca. Il taglio dei parlamentari – votato da loro stessi – ha scatenato la brutale legge della politica: si salva il più forte (o il più vicino ai dirigenti) e tutti gli altri a casa. Così nella corsa a un seggio per il voto si sacrificano nomi illustri e peones in quasi tutti i partiti. La domanda è: il prossimo Parlamento riuscirà a fare meglio di quello giubilato? Ma attenzione a dove poi si ricollocheranno gli esclusi…
«Non si può votare quando c’è la guerra, quando c’è la pandemia, quando sale lo spread, quando Totti e Ilary se lasciano. E allora quando?». La battuta di Giorgia Meloni non considerava la vera motivazione dello tsunami elettorale in arrivo, che quasi tutti i partiti volevano evitare come un mal di denti: non si dovrebbe votare quando gli esclusi sono più dei candidati. Ed è questo il caso, è questo lo smottamento epocale: siamo davanti alla Grande Rottamazione, con stridio di gru a elettromagnete, clangore di parafanghi, eliminazione di politici con la ruggine incombente: 230 deputati e 115 senatori in meno, un esercito dolente in rotta dopo notti trascorse a difendere la posizione e la poltrona, una sfilata di fantasmi in cerca d’autore e di futuro.
Sono le vittime dell’epurazione digitale. Nel senso che il dito indica la porta e non solo per mancanza di scranni ma per vendette intestine (i renziani tagliati da Enrico Letta nel Partito democratico), per declino fisiologico (gli uomini di Gianni Letta dentro Forza Italia), tecnicismi a orologeria (il secondo mandato come deadline per il Movimento 5 stelle), ricambio sui territori (qualche fibrillazione leghista), la naturale fragilità del Terzo Polo che dietro Carlo Calenda e Matteo Renzi ha un mezzo deserto di posti e due new entry del calibro di Mariastella Gelmini e Mara Carfagna da accontentare. L’unico partito a non doversi preoccupare delle potature stagionali è Fratelli d’Italia, che si avvicina alla sfida elettorale con i sondaggi in poppa, Emerson Fittipaldi al volante, senza eccessi ansiogeni. E può rifugiarsi dietro il vecchio motto democristiano riadattato da Ignazio La Russa: «Abbiamo a disposizione più sedie che culi».
Tutti gli altri hanno lasciato vittime dietro le spalle. Ma nessun pianto, nessuna coccarda a lutto perché deputati e senatori sono pronti a ingrossare le file dei pretendenti a posti nei cda delle partecipate, delle fondazioni, dei think tank, dei festival del cinema, della Vigilanza Rai. A cominciare dal Nazareno, dove a rimanere a piedi sono pezzi da novanta come Roberta Pinotti, da tempo decisa a non ricandidarsi in un collegio a rischio ma a «lavorare in un’organizzazione internazionale». In ogni caso per lei il paracadute è sicuro: la sinistra delle armi non potrà non tenere conto del curriculum di un’ex ministra della Difesa. Come dei ruoli chiave di altri silurati eccellenti tipo il renzianissimo Luca Lotti, Luigi Zanda, Barbara Pollastrini. O candidate in partibus infidelium, dentro collegi quasi impossibili come Alessia Morani o Monica Cirinnà («farò la mia battaglia») e il suo facoltoso cane.
In barba al pacifismo di piazza e alle bandiere arcobaleno, la sensibilità del Pd per le armi è particolare. Quel mondo è il contenitore più capiente e affidabile per gli sconfitti in cerca di consolazione, con sponde di garanzia come Nicola Latorre, oggi direttore generale dell’Agenzia Industrie Difesa; Andrea Manciulli ex Finmeccanica e ai vertici di Leonardo; Luciano Violante, presidente della Fondazione Leonardo; Marco Minniti, numero uno della Fondazione Med-Or sempre di Leonardo. Tutti piddini di lungo corso. Una curiosa coincidenza: aumentano le spese militari e aumentano i posti per la sinistra con l’elmetto. Come spiega un deputato di centrodestra: «Da tempo la Difesa è diventata il dopolavoro di chi è stato parlamentare Pd».
Un altro rifugio per peccatori rossi è come sempre la Rai: la commissione di Vigilanza accoglie in un caldo abbraccio i retrocessi. Valeria Fedeli lo sa e pur essendo stata cancellata dalle liste di Enrico Letta, alla poltrona televisiva si aggrappa con fiducia. Fra Vigilanza e Fondazione Agnelli, l’ex ministra dell’Istruzione con licenza media dorme fra due guanciali. È tornato fra i vivi Enzo Amendola, quindi un posto si è liberato anche nel parastato. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio – nonché colonnello degradato per tre giorni – è stato graziato dai tweet dell’enfant prodige lettiano Raffaele La Regina contro Israele (con conseguente ritiro della candidatura) e ha recuperato il suo seggio blindato in Basilicata.
Tenero e disperato il caso di Filippo Sensi, ex portavoce di Matteo Renzi e di Paolo Gentiloni quando erano premier, non un ballerino di fila. Sarà costretto a lottare all’arma bianca nell’uninominale in un collegio del Lazio definito da lui stesso «elettoralmente l’Everest». Lo farà con i biglietti del bus (la macchina la usa la moglie), le cuffiette per l’ascolto, le scarpe comode per camminare «e i pennarelli perché farò una campagna a fumetti». Il fighettismo radical chic impazzisce per Zerocalcare, in realtà lui passa le giornate a pontificare su Twitter. Ma il sacrificio è necessario, l’eventuale «bella sconfitta» è il presupposto per un’eventuale, più facile ricollocazione. Nel 2023 si liberano 61 posti nelle partecipate e i board delle sei quotate regine: Enav, Enel, Eni, Leonardo, Poste e Terna. Un ufficio stampa con poltrona di pelle umana e ficus d’ordinanza non si nega a nessuno.
Quella del Pd è la demolizione più evidente, con sconfitta delle nuove leve e della società civile vera, quella degli sconosciuti di talento sbandierati da Letta nei convegni ma sacrificati sull’altare delle rockstar da talk show, come l’economista poco economico Carlo Cottarelli e il virologo militante (a Piccadilly) Andrea Crisanti. O di politici riciclati da altri lidi come Luigi Di Maio: candidato nel collegio partenopeo Napoli-Fuorigrotta, lo stesso della Carfagna, rischia grosso. «Invece che un seggio sicuro, il Pd potrebbe avergli dato una sòla», sussurrano i maligni. Sorte peggiore per i suoi 62 fedelissimi: il Nazareno ha garantito solo i posti di Di Maio e Tabacci. Così il cerino è rimasto acceso in mano, per esempio, a Vincenzo Spadafora, ex ministro dello Sport che due anni fa tentò di far fallire il calcio (terza azienda del Paese) senza riuscirci.
Nei territori della Ditta lo smarrimento è massimo: sindaci furibondi, apparati locali sconfitti. Ne ha fatto le spese la vice ministra degli Esteri, Marina Sereni: annusata l’aria negativa ha deciso di autoescludersi, consapevole che il risarcimento verrà. L’esempio che fa più scalpore è quello di Bologna, dove Pierferdinando Casini è stato paracadutato per l’ennesima volta. Come dice Pippo Civati (che corre per Sinistra e Verdi) rilanciando un vecchio tweet: «Non è Casini che è diventato del Pd ma è il Pd che è diventato Casini».
La ballata dei Rottamati prosegue fra i grillini, che volendo fortemente il taglio dei parlamentari e mettendo nello statuto il divieto di terzo mandato hanno segato il ramo sul quale stavano seduti. Paola Taverna (quella del «oggi li sfonnamo de brutto») è diventata una lady soft; continuerà a essere vicepresidente del partito, ma da fuori. E difficilmente tornerà a fare l’impiegata in un poliambulatorio di analisi. Danilo Toninelli attende ordini sul monopattino. Alfonso Bonafede ha capitalizzato nel privato, nel senso che dopo la terrificante esperienza da ministro della Giustizia ha aperto uno studio legale a Milano con la moglie, oltre a quello di Firenze. Il presidente della Camera, Roberto Fico, è entrato in parlamento in autobus e se ne va a piedi: il pilastro dell’ala sinistra pentastellata ha un passato in Vigilanza Rai, nessuno dubita sull’esistenza da qualche parte di uno strapuntino idoneo al suo magistero.
Fra i rottamati definitivi spiccano nomi arrembanti. Il ministro Federico D’Incà, pur transfuga eccellente sulla bagnarola di Di Maio, non ha trovato una collocazione sicura nella galassia piddina e alla fine non si è candidato. Però ha promesso: «Mi dedicherò al progetto Ambiente 2050» qualunque cosa voglia dire. Nunzia Catalfo, Vito Crimi e Giulia Grillo sono scaduti, come Riccardo Fraccaro, l’uomo-beffa: la legge che taglia deputati, senatori (e pure le sue ambizioni) è firmata da lui. Anche l’ex sindaca capitolina Virginia Raggi deve stare ferma un giro e lo fa per tre motivi irrinunciabili: «Sono stata eletta in consiglio comunale a Roma e non mi sentirei a mio agio altrove, sono contraria alle alleanze strutturali con altri partiti, non potrei lavorare gomito a gomito con chi ci ha sempre ostacolato». Gregorio De Falco torna a bordo; il capitano di fregata che ebbe l’unico momento di notorietà la notte del naufragio della Costa Concordia e di Francesco Schettino ha deciso di reindossare la divisa: marina militare, guardia costiera. Lascia la politica con un’altra frase storica: «Ho fatto molto, ma meno di quello che avrei voluto».
Unica nel suo genere la vicenda di Laura Castelli, ex viceministra che ha seguito Di Maio in Impegno Civico: inserita dal Pd in un collegio blindato a Novara, è stata vittima di una ribellione degli apparati locali dem, con minacce di riconsegna di tessere e dimissioni. Così ha deciso di fare un passo indietro: «No grazie, casa mia è Collegno». Correrà sui carboni ardenti, nella giungla, a caccia di quel 3 per cento che gli esperti definiscono inavvicinabile. Anche nel centrodestra si contano le vittime della nuova legge, soprattutto in Forza Italia, che aveva il 15 per cento e adesso ha l’8 per cento (123 uscenti, se va bene 70 entranti). Necessario dimagrire, anche per far spazio al presidente della Lazio Claudio Lotito, a Flavio Tosi, a Rita Dalla Chiesa. Il coordinatore Antonio Tajani è stato costretto a canticchiare «Fatti più in là», vecchio refrain delle Sorelle Bandiera. Fuori Gregorio Fontana, storico parlamentare bergamasco, Simone Baldelli, Andrea Ruggeri. Illuminante il domino shock della presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, imposta in Basilicata ai danni di Giuseppe Moles, candidato lucano del partito, mentre nel suo Veneto è stata calata la bolognese Anna Maria Bernini. Non c’è spazio neppure per Renata Polverini, che da tempo il partito aveva rinunciato a seguire (e a giustificare) nelle sue derive. Priva di sponde, Renata si è arenata. Ma con un certo stile: «Non dico addio alla politica, le battaglie si possono fare anche fuori dal parlamento, al quale non è detto si debba restare a tutti i costi aggrappati».
Le uscite di scena sono di gran nome. Renato Schifani ha deciso di correre alle regionali siciliane e Adriano Galliani di lasciar perdere il Senato «per dedicarmi al Monza». La partenza nel campionato di Serie A è sofferta e il suo apporto ai destini del Paese in questi cinque anni non è stato da Champions league. Scomparso dai radar è Renato Brunetta, che ha lasciato il partito azzurro senza un vero paracadute. Non considerato dai centristi, non candidato da Calenda, per sua ammissione si dedicherà «a Venezia e ai miei vigneti». La Lega ha rinunciato al primo parlamentare nero eletto, l’imprenditore Toni Iwobi, che sulla maglietta portava orgogliosamente la scritta salviniana «keep calm and dovra la pachera», usa la ruspa, secondo l’antico riflesso condizionato del Salvini dominante del 2018. Anche Simone Pillon, riferimento politico del movimento per la famiglia, dovrà conquistarsi un posto al sole nel plurinominale in Umbria.
Nel Terzo Polo pochi posti e litigiosità sottotraccia, a casa di Renzi e Calenda i margini di manovra sono limitati. Ne ha fatto immediatamente le spese Federico Pizzarotti, l’ex sindaco di Parma in cerca d’autore perenne. Pur sostenuto da Emma Bonino, ha dovuto arrendersi: neppure uno strapuntino a suo nome. Ci è rimasto male. «Non ci sono stati spazi seri nel progetto per candidature non direttamente collegate ad Azione e Italia Viva», ha scritto su Facebook, neanche gli avessero proposto di candidarsi in Donbass. Nessuno ha voglia di lottare; nonostante il clima di precarietà nel Paese, in politica cercano tutti il posto fisso. A meno di clamorosi ripescaggi perfino Gennaro Migliore ha gettato la spugna. Peccato, il suo salto della quaglia da un partito all’altro era diventato spettacolare.
Del caratterino di Calenda ha fatto le spese un monumento come Gabriele Albertini, che nel suo deambulare dialettico sperava di ottenere un seggio blindato in Azione a Milano. «Non lo vedo da 10 anni e mi ha chiesto una doppia candidatura via Whatsapp», la spiegazione del Pericle dei Parioli. «Non essendo neppure iscritto ad Azione, mi è sembrata una proposta quantomeno stravagante». Rottamato pure lui con fragore di anabbaglianti che scoppiano a mezza altezza. Con un vantaggio: non sarà necessario trovargli una poltrona di riserva.
