I rapporti tra Cinque stelle e Partito democratico sono sempre più burrascosi. Nonostante sostengano il governo Draghi, sono agli antipodi sulla guerra in Ucraina e adesso litigano anche sui termovalorizzatori. Eppure l’ex «campo largo» deve resistere: in vista delle elezioni di giugno.
I grillini più riottosi pregustano già l’ennesimo ribaltone sotto la canicola: sarà l’estate del Papeete pentastellato. Per carità, l’ex premier con pochette, Giuseppe Conte, non romperà con il Pd dalla gremita Milano Marittima, come fece con lui Matteo Salvini quasi tre anni fa. Ecco, magari dirà addio dalla nostalgica Capalbio, la «piccola Atene», che è solito frequentare con la bella Olivia. Comunque sia: tra il lusco e il brusco, i giallorossi vanno verso il divorzio ufficiale. S’erano tanto amati? Macché: un odio viscerale ha sempre pervaso i tumultuosi rapporti. Fin dai tempi in cui il fondatore, l’arcigno Beppe poi trasformatosi in ecumenico Elevato, dava sfogo alla sua feroce vena comica: «Pdmenoelle», «pidioti», «partito preferito dalla camorra», «ha gestito Roma con Mafia Capitale», «collusi e complici», «gente sporca dentro».
Dopo tre anni di forzosa unione, con il giurista pugliese a Palazzo Chigi e poi nel governissimo di Mario Draghi, cade l’impostura. Il «campo largo» evocato dal segretario del Pd, Enrico Letta, è diventato un orticello. Non vanno d’accordo su niente. Conte scalpita: non vuole inviare le armi in Ucraina, difende furiosamente il superbonus edilizio, aborre il termovalorizzatore da costruire nella capitale. E soprattutto detesta Draghi, che non ha mai smesso di considerare un usurpatore. C’è un solo tema su cui Giuseppi ed Enrichetto concordano. Fa sonnecchiare il popolo, ma aizza l’arco parlamentare: la legge elettorale. Vogliono il proporzionale. Non è una questione di lana caprina, ma esistenziale. Fine delle coalizioni. Agognato ritorno alla Prima repubblica. Niente patti preventivi, faticosamente cercati da anni. Non si fanno prigionieri. Lotta all’ultimo voto. Tutti contro tutti. Le alleanze si cercano in Parlamento, a urne sigillate.
Insomma: il proporzionale sarebbe l’unica maniera per tentare di salvare la faccia, dopo le reiterate e ipocrite promesse d’amore eterno. Ognuno per sé. Che Dio l’aiuti. L’ex premier non ha scelta. Nove mesi dopo la sua tormentata nomina a leader del Movimento, fissa sgomento l’ultimo sondaggio: 10 per cento. La scorsa estate, mentre si insediava, era al 16. Nel 2018 il Movimento poteva contare su 339 eletti, tra deputati e senatori. Adesso, complice anche il taglio di un terzo dei 900 parlamentari, ne avrebbe al massimo una sessantina. Uno scarto clamoroso. L’evocato salvatore rischia di trasformarsi nell’estremo untore. Manca un anno alle politiche. Conte non crede più nella vittoria del centrosinistra. E se dovesse trionfare a sorpresa, il ruolo dei Cinque stelle sarebbe comunque talmente subordinato al Pd da rischiare l’irrilevanza. Anche perché i centristi non vedono l’ora di diventare il secondo appezzamento del campetto lettiano. Azione di Carlo Calenda e Italia viva di Matteo Renzi: i loro voti potrebbero arrivare a pesare quasi quanto quelli dei declinanti pentastellati. Con Letta che canta Battisti: «A quest’ora, cosa vuoi? Mi va bene pure lei». A Milano, più prosaicamente, si dice: «Piuttosto che niente è meglio piuttosto». Nonostante il rischio di trovarsi il terreno infestato dalla gramigna.
Per l’ex avvocato del popolo la strada è dunque tracciata: opposizione dura e senza paura. Giorgia Meloni, che ha portato i suoi Fratelli d’Italia in cima alle rilevazioni demoscopiche, resta il fulgido esempio da seguire. I Cinque stelle devono tentare di recuperare l’indomito bastiancontrarismo degli esordi. Sperando che i simpatizzanti dimentichino il convinto appoggio agli ultimi tre governi, lo spudorato trasformismo, la plateale sconfessione di ogni dogma.
Impresa improba. Anche perché Giuseppi fino a ieri è stato un dororeo in sedicesimi. Poco importa. O meglio: a maggior ragione, i suoi no devono essere i più stentorei possibile, nonostante da premier abbia detto sì a tutti. Bisogna tentare di togliere voti al Pd, il partito più governista in circolazione, marcando debita distanza. Il momento, suggerisce il fido portavoce Rocco Casalino, sarebbe quantomai propizio. Meloni vuole diventare la prima presidente del Consiglio della storia patria. Fdi deve abbassare i toni: moderati, atlantisti ed europei. E la Lega di Matteo Salvini ha ormai scelto la sua linea: l’opposizione interna a Draghi.
S’intravede, allora, un pertugio. L’ultimo, disperato, tentativo: riesumare il Movimento anti sistema degli esordi, pena la sparizione. Il colpaccio sarebbe far cadere l’esecutivo e andare alle elezioni in autunno, menando vanto di aver spodestato l’eurobanchiere da Palazzo Chigi. Quello che fece Renzi con il suo governo, insomma. Senza, per altro, alcun giovamento: né elettorale e nemmeno d’immagine. Giuseppi è meditabondo: essere o non essere? Visti i suoi melliflui trascorsi, sperava di trasformare il partito nella nuova diccì, invece gli tocca fare il rifondarolo. Però può finalmente bearsi di essere un uomo da solo al comando. Grillo, colui che s’era elevato fino a congiungersi con il Pd «per salvare l’Italia dai nuovi barbari» leghisti, l’ha sempre dileggiato: «Non ha visione politica». Ora però sembra venuto a miti consigli, dopo aver ricevuto dal leader una lauta consulenza da 300 mila euro all’anno. Tornerà a fare il guru della comunicazione del Movimento.
Fuori uno. Ma ora bisogna liberarsi pure di Luigi Di Maio: ex capo pentastellato, ministro degli Esteri, emblema assoluto della metamorfosi poltronara. Più draghiano di Draghi. Più giallorosso di Francesco Totti. Per questo, spinge sul maggioritario. Spera così di riallacciare i rapporti con il Pd e depotenziare l’odiato Conte, che avrebbe meno potere nella selezione dei candidati per i collegi uninominali, da condividere con Letta. Proprio quello che l’ex premier vuole evitare. In Parlamento gli servono sedicenti custodi dell’antica ortodossia grillina, come il battagliero Alessandro Di Battista, coadiuvato da onorevoli e senatori ostili a Draghi. Una battaglia identitaria, contro Pd e governo. Quella sollecitata dal Fatto quotidiano, indispensabile bussola giuseppina, che analizza: «Di Maio incarna tutto ciò che il M5S non deve essere». Quindi, intima: «I dimaiani, al prossimo giro, non andranno candidati». Magari non servirà. Conte è sicuro che, al momento giusto, i recalcitranti passeranno dalla sua parte. Primum vivere, deinde philosophari. A meno che, in ossequio al suo attaccamento al potere, passi armi e bagagli nel Pd, assieme a qualche fedelissimo.
Prove generali imminenti: le prossime amministrative. Sarà una scoppola memorabile. In centinaia di comuni, per evitare umiliazioni, non sarà presentato nemmeno il simbolo. Giuseppi desiste, Giggino briga. Vuole testare, nella natìa Campania, il suo peso. Così si muove ramingo. Alleanze, accordi, comizi: i suoi fedelissimi fanno da soli. A Portici, popolosa città della provincia napoletana, i contiani appoggiano una coalizione ambientalista mentre i dimaiani si schierano con i democratici. Schema che si ripete in altri comuni campani al voto.
Insomma: o Dem o morte. Eppure, il ministro l’aveva giurato: «Escludo ca-te-go-ri-ca-men-te qualsiasi alleanza col Pd». Per poi chiarire nel tempo: «È un partito di miserabili che vogliono soltanto la poltrona», nonché «dei privilegi, della corruzione e delle ruberie», «simbolo del voto di scambio e del malaffare», «ha un’idea perversa del concetto di democrazia», «si fa pagare da Mafia Capitale», «profana la democrazia», «fa politiche che favoriscono i mafiosi», «manda sul lastrico i risparmiatori», «è da mandare via a calci», «è responsabile di questo schifo». In definitiva: «È il male dell’Italia».
Fino all’estate 2019: quella del Papeete, appunto. In quell’afoso agosto scoppia un amore ricambiato e duraturo. Adesso, nel Pd, tutti lo vogliono. Il ministro della Cultura, Dario Franceschini, ne ha sconfinata stima. E il senatore Andrea Marcucci esplicita il pensiero ormai dominante: «È molto maturato e ha dato buona prova di sé». Dunque porte spalancate a Di Maio, «se il Pd deciderà di avere delle autorevoli personalità esterne». Non resta che attendere la ficcante replica del governatore campano dem Vincenzo De Luca, già estensore di indimenticabili dileggi: «webmaster», «noto sfaccendato», «testa di sedano». Ah, no. I due si sono appena riappacificati, tra reciproche sviolinate. Proprio in vista delle amministrative di giugno. Benvenuto allora compagno Giggino, ultimo dei giallorossi.