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Primarie Usa: il duello Biden/Sanders fra gli operai bianchi impoveriti

Primarie Usa: il duello Biden/Sanders fra gli operai bianchi impoveriti

La corsa alla nomination del Partito democratico statunitense è diventata uno scontro tra il moderato Joe Biden e il radicale Bernie Sanders. Le sorti dei due sfidanti potrebbero giocarsi il 10 marzo nell’area situata tra gli Appalachi e i Grandi laghi: la cosiddetta Rust Belt.


Nonostante le difficoltà riscontrate nei primi appuntamenti elettorali, l’ex vicepresidente statunitense – con il Super Martedì del 3 marzo – è tornato seriamente in pista, vincendo 10 dei 14 Stati in palio. I due contendenti sono quasi appaiati nella conta dei delegati, con Biden a 624 e Sanders (recentemente vittorioso nella popolosa California) a quota 556. Il prossimo appuntamento elettorale si terrà invece martedì 10 marzo, quando voteranno contemporaneamente Idaho, Michigan, Mississippi, Missouri, North Dakota e Washington.

Si tratta di una tornata particolarmente rilevante. Non soltanto per l’elevato numero di delegati in palio (352). Ma anche perché – soprattutto con il Michigan – inizierà finalmente a esprimersi la Rust Belt: un’area ricca di operai bianchi impoveriti e potenzialmente decisiva per la conquista della nomination democratica. Non va dimenticato che, nel Super Martedì, si sono prevalentemente pronunciati Stati meridionali: Stati, cioè, in cui risultano principalmente decisive le minoranze etniche. Per il momento, Biden ha consolidato il proprio vantaggio tra gli elettori afro-americani, laddove Sanders ha una maggior presa su quelli ispanici (come testimoniato dai suoi successi in California e Nevada). I colletti blu della Rust Belt rappresentano invece ancora un’incognita. E la loro preferenza potrebbe rivelarsi dirimente nella disfida per la nomination.

Tradizionalmente Sanders risulta il candidato più vicino alle istanze della classe operaia impoverita di quest’area, Un’area – ricordiamolo – che si è ritrovata martoriata in seguito alla Grande recessione del 2008 e che ha sviluppato nel tempo un crescente astio verso i trattati internazionali di libero scambio, considerandoli tra i principali responsabili della delocalizzazione della produzione (e della conseguente perdita dei locali posti di lavoro). Sul fronte del commercio internazionale, Sanders porta avanti una prospettiva tendenzialmente protezionista e ferocemente critica della globalizzazione. Si tratta di una linea che ha fatto progressivamente breccia nell’area della Rust Belt.

Una regione che fino al 2008 tendeva a votare per candidati di orientamento centrista e che, dal 2016, ha invece iniziato a virare verso un sentimento marcatamente anti-establishment. Certo: questo non vuol dire che alle primarie democratiche di quattro anni fa Sanders abbia trionfato in tutti gli Stati di questa regione. Il senatore del Vermont venne sconfitto in Pennsylvania e in Ohio, ma vinse in Wisconsin e Michigan. Quello stesso Michigan che, per intenderci, si era fino ad allora rivelato uno storico feudo clintoniano.

Sanders conquistò questi importanti risultati soprattutto grazie alla sua strenua opposizione nei confronti della Trans Pacific Partnership, un’intesa di libero scambio tra Washington e altri 11 Paesi del Pacifico. Elemento che – dalle parti della Rust Belt – aiutò l’ascesa del senatore socialista, come in campo repubblicano quella dello stesso Donald Trump. Sotto questo aspetto è interessante rilevare che, alle presidenziali del 2016, svariati elettori sandersiani di questo territorio, anziché votare per Hillary Clinton, decisero di sostenere alla fine il magnate newyorchese.

Nel 2017, Brian Schaffner, politologo alla Tufts University, registrò che in Michigan l’8% dei sandersiani aveva votato per Trump, in Wisconsin il 9% e in Pennsylvania addirittura il 16%. Numeri non altissimi, ma che si rivelarono comunque decisivi per permettere al magnate newyorchese di conquistare questi fondamentali Stati. Del resto, non dimentichiamo che – quattro anni fa – Trump mostrò svariati punti in comune con il messaggio elettorale del senatore socialista: dalla difesa dell’industria tradizionale alla necessità di un’energica riforma infrastrutturale, passando per un’accanita critica verso alcuni trattati internazionali di libero scambio. Entrambi avevano, cioè, imbracciato la battaglia volta alla tutela dei lavoratori dimenticati, cavalcando quel processo che l’economista Karl Polanyi definiva l’«autodifesa della società».

Oggi Sanders ci riprova. E punta moltissimo sulla Rust Belt per tenere aperta la propria strada verso la nomination. In questo senso, per esempio, sta da tempo criticando Biden per le sue posizioni tendenzialmente a favore della globalizzazione. Soprattutto negli ultimi giorni, il candidato socialista è tornato ad attaccare l’ex vicepresidente per il sostegno che – da senatore del Delaware – diede al North American Free Trade Agreement. Il trattato di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico, entrato in vigore nel 1994 ai tempi di Bill Clinton, è stato recentemente rinegoziato dalla Casa Bianca. Lo stesso Trump, pochi giorni fa, ha attaccato Biden su questo fronte.

Un ulteriore elemento su cui il senatore del Vermont punta è quello di una maggiore fermezza nei confronti dell’immigrazione clandestina: un fattore che suscita da anni profonde preoccupazioni tra i colletti blu del Michigan e del Wisconsin, in quanto considerato foriero di ribasso salariale. Durante un evento elettorale in Iowa, lo scorso aprile Sanders dichiarò non a caso: «Se apri i confini, mio Dio, c’è molta povertà in questo mondo e avrai persone da tutto il mondo. E non penso che sia qualcosa che possiamo fare a questo punto. Non posso farlo. Quindi questa non è la mia posizione». Del resto, una delle ragioni che portarono Trump al successo nella Rust Belt quattro anni fa fu proprio la sua linea dura contro l’immigrazione clandestina.

Più in generale, Sanders sta cercando oggi di dipingere Biden come il «candidato dell’establishment», lontano dagli autentici bisogni dei colletti blu impoveriti e soprattutto legato in modo inquietante alle alte sfere di Wall Street. Va sottolineato che queste accuse non sono del tutto infondate. E che il recente compattamente dell’apparato del Partito democratico attorno all’ex vice-presidente potrebbe anche infiammare la rabbia antiestablishment degli operai della Rust Belt. Dall’altra parte, bisogna anche sottolineare che, per Sanders, si scorgono campanelli d’allarme non poco rilevanti.

Come ravvisato da Nate Cohn il 6 marzo sul New York Times, il senatore del Vermont negli ultimi appuntamenti elettorali ha rimediato amare sconfitte in territori a prevalenza bianca: si pensi al Maine, al Massachusetts o al Minnesota. Un fattore preoccupante, soprattutto alla luce del fatto che Maine e Minnesota avevano invece votato per lui alle primarie del 2016. Resta pur vero che, a fronte di un calo tra i bianchi, il senatore ha incrementato consensi tra gli ispanici. Ma è altrettanto indubbio che questo «scambio» non si rivelerebbe particolarmente utile in aree come la Rust Belt. Prendiamo il caso del Michigan, dove Sanders vinse su Hillary Clinton con uno scarto di appena l’1%: qui, secondo la piattaforma Data Usa, il 75% della popolazione risulterebbe bianca, a fronte di un 14% di afroamericani e di un 5% di ispanici. Alla luce di questi dati, è chiaro che un eventuale decremento (anche parziale) nel sostegno dei bianchi potrebbe rivelarsi elettoralmente fatale per il senatore socialista.

Ma, al di là dell’aspetto meramente etnico, bisogna anche considerare quello economico-produttivo. Mediamente il settore manifatturiero della Rust Belt risulta più significativo di quello presente in Stati come Maine e Massachusetts. Secondo i dati della National Association of Manufacturers, nel Maine il manifatturiero impiega l’8% della forza lavoro a livello statale, mentre il Massachusetts il 6,7%. Dati significativamente inferiori a quelli registrati in Michigan (14,2%), Wisconsin (16%) e Ohio (13%). L’unico Stato settentrionale con un tasso (relativamente) elevato di occupazione nel manifatturiero in cui Sanders è stato sconfitto lo scorso 3 marzo è semmai il Minnesota (11%). Questo può effettivamente rappresentare una seria preoccupazione per il senatore del Vermont, pur considerando che, alle ultime primarie del cosiddetto North Star State, sono intervenute anche dinamiche di carattere squisitamente politico. Come l’endorsement a Joe Biden di Amy Klobuchar, che del Minnesota è senatrice.

Insomma, la situazione resta abbastanza incerta, anche se i sondaggi non sembrano al momento troppo arridere al senatore del Vermont. Secondo una rilevazione di Detroit News, in Michigan Biden risulterebbe in vantaggio con il 29%, seguìto da Sanders al 23%. Va comunque sottolineato che questo sondaggio è stato condotto immediatamente prima del Super Martedì. E che quindi non tiene conto del recente ritiro di Mike Bloomberg ed Elizabeth Warren, che – in loco – avevano conseguito rispettivamente il 10% e il 7% dei consensi potenziali. Riguardo invece a Pennsylvania, Ohio e Wisconsin, gli ultimi sondaggi disponibili risalgono alla fine di febbraio e non risultano pertanto utili per capire che cosa accadrà nelle prossime settimane.

Probabilmente l’incertezza che Sanders sta riscontrando nella Rust Belt è anche dovuta alla situazione socio-economica in chiaroscuro dell’area. Secondo i dati diffusi a gennaio dal Dipartimento del Lavoro americano, è vero che – tra dicembre 2018 e dicembre 2019 – sono diminuiti in loco i posti di lavoro nel settore manifatturiero (soprattutto a causa del fatto che giganti come US Steel e General Motors hanno chiuso stabilimenti e implementato piani di ristrutturazione). Ma è altrettanto vero che, nello stesso periodo, in altri settori (commercio, trasporti, informazione e servizi) i posti di lavoro sono aumentati. Tanto che, in termini assoluti, il tasso di disoccupazione nell’area resta particolarmente basso.

A dicembre 2019, il tasso in Wisconsin era del 3,5% (0,1% in più rispetto a luglio), mentre in Pennsylvania era del 4,6% (0,2% in più rispetto a luglio). In Michigan è invece passato dal 4,1% di luglio 2019 al 3,9% dello scorso dicembre. Una significativa incertezza economica nella Rust Belt è determinata anche dalle dinamiche del commercio internazionale: bisognerà capire quale sarà l’impatto dell’accordo parziale tra Washington e Pechino, siglato lo scorso gennaio alla Casa Bianca. Oltre a quello del recente United States Mexico Canada Agreement, nato dalla rinegoziazione del Nafta.

Alla luce di questo quadro complesso, è difficile capire come riuscirà a muoversi Sanders nella Rust Belt. Anche perché non si può del tutto escludere che – come sospetta lo stesso New York Times – qualcuno dei suoi vecchi elettori possa essere passato a sostenere Trump, vedendo ormai nell’inquilino della Casa Bianca il baluardo contro le storture della globalizzazione. Dinamica che resterebbe tuttavia in caso subordinata al conseguimento di buoni risultati economici nei prossimi mesi, che però sono tutti da dimostrare, visto il problema sempre più pressante anche negli Stati Uniti del coronavirus.

Quel che è chiaro, invece, è che la Rust Belt si rivelerà centrale per comprendere il futuro delle attuali primarie democratiche: anche perché è di 491 delegati il bottino complessivo di Wisconsin, Ohio, Michigan e Pennsylvania. Se Biden nelle prossime settimane riuscirà ad espugnare l’area, la sua strada verso la nomination dovrebbe essere spianata. Di contro, se Sanders dovesse alla fine spuntarla, l’asinello si ritroverebbe drammaticamente spaccato. E con poche possibilità di un effettivo ricompattamento in vista delle presidenziali di novembre.

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