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La trincea di Draghi

La trincea di Draghi

Tredici mesi dopo la sua nomina, con una pandemia che non è finita e una guerra europea dove l’Italia appare sempre più schierata, il presidente del Consiglio arranca. Si è esaurito il credito che lo ha portato a Palazzo Chigi. Si torna così a navigare a vista, tra un’Europa sospettosa e una crisi che farà sentire tutti i suoi dolorosi effetti.


Pure lui, l’inarrivabile Migliore, finito nella nutrita schiera dei migliorabili. Il fuoriclasse, come lo definivano sognanti, che diventa vecchia gloria. E quel roboante SuperMario, poi: forse è arrivato il momento di depurare il nome di battesimo dall’altisonante suffisso. Insomma, assieme all’ennesima primavera del nostro scontento, avanza l’atroce dilemma: e se Draghi non fosse un drago?

Di sicuro, s’e fatto falco. La stentorea sparata di Luigi Di Maio, colpevolmente riconfermato alla Farnesina, sembrava insuperabile: Vladimir Putin è «peggio di un animale». Il premier ha rilanciato, accostando il presidente russo ad Adolf Hitler e Benito Mussolini. Il mite Draghi scende in trincea. Per settimane, è stato soppiantato dall’attivismo dei suoi parigrado: come il francese Emmanuel Macron e l’inglese Boris Johnson. Persino l’opaco cancelliere tedesco, Olaf Scholz, è parso più risoluto. Hanno sempre badato ai toni, però. Dopo aver ascoltato a Montecitorio il discorso del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, invece Draghi mette da parte ogni diplomazia. Prima, il parallelo con il dittatore fascista e quello nazista. Poi, la solenne promessa dell’aumento delle spese militari: «Vogliamo creare una difesa europea» conferma. «Ed è per questo che ci adeguiamo all’obiettivo del 2 per cento che abbiamo promesso nella Nato». Aggiunge: «L’Italia sostiene il percorso dell’ingresso nell’Unione europea dell’Ucraina». Tocca al Financial Times, prima lettura quotidiana dell’ex presidente della Bce, ricordare che la richiesta era già stata «rifiutata collettivamente» dagli altri leader. Comunque sia, dopo più di un mese da spettatore, Draghi tenta di tornare protagonista: trasformandosi nel più arrembante di tutti. Del resto, non era lui l’erede designato di Angela Merkel alla guida dell’Europa?

Prima, la pandemia. Poi, la guerra. E adesso prova a ridiventare il valoroso condottiero dei primi mesi a Palazzo Chigi. Sembra voler ricordare al mondo che lui rimane sempre l’impavido del «Whatever it takes». Il banchiere che avrebbe salvato la moneta unica dalle speculazioni: «Costi quel che costi». Ma anche in patria siamo in pieno amarcord felliniano. Tredici mesi fa, il suo arrivo a Palazzo Chigi viene salutato come il più provvidenziale evento politico del dopoguerra. L’Italietta sarebbe diventata meglio della Germania. I turisti nordeuropei, in sandaletti color cuoio e calzini bianchi, avrebbero smesso di guardarci come sfornatori di pizza e suonatori di mandolino. Cantieri supersonici, mutamenti epocali, burocrazia detronizzata. Ci avrebbe pensato Mario, pardon SuperMario.

«Eccellenza, governare l’Italia è difficile?» domandò una volta Emil Ludwig, giornalista svizzero, al Benito Mussolini evocato da Draghi: «Per nulla, è semplicemente inutile» rispose il Duce. La frase, a dispetto del suo controverso autore, è stata presa in prestito da frotte di politici e analisti. Stavolta, però, le cose sarebbero andate diversamente. Futuro luminoso. Stampa sognante. Popolo in fiduciosa attesa. Orsù, l’Italia s’è desta. Poco più di un anno dopo, c’è poco da rallegrarsi. Draghi arranca. Per non parlare della sua scombiccherata compagine ministeriale. Le decantatissime riforme, seppur obbligate dall’Europa, annaspano. Il già rivedibile Pnrr andrebbe riscritto. Nuove tasse incombono. L’inflazione a febbraio è arrivata al 5,7 per cento: il valore più alto degli ultimi 27 anni. Per carità: Draghi è capitato in uno dei momenti più funesti di sempre. Ma nelle avversità, l’aspirante riformista è rimasto sopraffino euroburocrate.

Per contrastare il virus s’è affidato a Roberto Speranza, ministro della Salute, coadiuvato da esperti e professoroni. Con deleterie e pleonastiche forzature senza eguali in Europa: come il super green pass e l’obbligo vaccinale per i lavoratori. E quando la pandemia comincia a rallentare, scoppia la guerra. Crisi internazionale ed economica, vista la dipendenza italiana dal gas russo. Questa sì, roba da SuperMario. Ma le tardive e modeste iniziative contro il salasso energetico, dalle bollette alla benzina, deludono cittadini e imprese. Il declinante consenso viene sancito dagli istituti demoscopici: il gradimento di Draghi è ai minimi storici. Negli ultimi due mesi è sceso di dieci punti. Adesso è sotto il 50 per cento. I suoi ruvidi commenti bellici, magari, servono anche a tentar di recuperare la fiducia perduta.

La parabola inizia però prima dell’avanzata dei blindati russi verso Kiev. La trincea in patria di Draghi è la battaglia per il Quirinale. La sua malcelata fregola di sostituire Sergio Mattarella. Lui che trama silente. E tutti a farsi, dalla massaia al capopartito, la stessa domanda: perché vuole già fuggire sul Colle più alto e lasciare il Paese in mutande? Non era il nostro prode? Riecco quindi l’andreottiano brigare, fatto di cenni e astuzie. Ma il piano fallisce. Il premier è dunque costretto a tornare alle solite acque limacciose. Agli atavici inghippi. Alle premesse di rinascita decantate nella conferenza stampa natalizia: il grosso del lavoro è fatto, vigilerò dal Colle. Invece, gli tocca andare oltre quei preamboli. Con un’aggravante. Appena nominato premier, promette che non avrebbe «mai messo le mani in tasca agli italiani». Eppure, ora riecheggia quel perfido fotomontaggio della Bild. Il quotidiano di Berlino, a settembre 2019, ritrae l’allora presidente della Bce come il «conte Draghila». Il vampiro dei conti correnti.

Dopo la pandemia, gli italiani speravano almeno in uno stato più clemente. Invece, no. La riforma del catasto, a dispetto delle rassicurazioni, fa temere una stangata nell’immobiliare. Era uno dei pochi settori sopravvissuto alla crisi, grazie anche al bonus del 110 per cento, ridimensionato dal governo. Una mossa che, per limitare le truffe, ha bloccato il settore, già alle prese con l’aggravio dei costi delle materie prime. Ora rischiano di fermarsi anche le opere pubbliche del Pnrr: la grande scommessa. Il premier spinge anche per la riforma delle concessioni balneari. Così, quest’estate si preannuncia il più robusto caro ombrellone della storia. Oltre all’annunciato aumento dei prezzi di traghetti e alberghi. Vale lo stesso per gli indiretti aggravi causati dal Ddl concorrenza, a partire dalle assicurazioni. Insomma, il disegno di legge che dovrebbe favorire i consumatori rischia di trasformarsi, vista la contingenza, nell’ennesima stangata. Difatti persino Lega e Forza Italia, sempre più scontenti, preparano battaglia in parlamento.

È la vita quotidiana quella funestata dagli insostenibili rincari. Persino le care e vecchie Poste vogliono aumentare le tariffe di pacchi e raccomandate. Poi, ci sono le tasse occulte del Covid. Basti pensare ai costosissimi tamponi, mai calmierati, obbligatori anche per far ottenere ai non vaccinati il green pass. Quello che, nelle incaute rassicurazioni del premier, ci avrebbe garantito «di trovarci tra persone non contagiose». Il «conte Draghila», appunto. Tra il lusco e brusco, mazzata leggendaria per le famiglie. Invece, era l’esecutivo delle migliori intenzioni. Quello che, una volte per tutte, avrebbe sfoltito le norme e tagliato le tasse. Una delle promesse solennemente proferite il 17 febbraio 2021, durante la trionfale fiducia alla Camera e al Senato. A partire dal fisco. «Non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta» illumina Draghi. «Non bisogna dimenticare che il sistema tributario è un meccanismo complesso, le cui parti si legano una all’altra». Dunque? «Le riforme dovrebbero essere affidate a esperti». Melodiosa musica per le orecchie dei tartassatissimi concittadini.

Invece, ecco l’impercettibile riformina: l’Irpef, per cui era stata annunciata «una revisione profonda», passa da cinque a quattro aliquote. E non grazie ai preziosi suggerimenti dei professoroni, ma per i soliti compromessi parlamentari. Eppure partiti e partitini, fino allo scorso autunno, sembrano annichiliti dal decisionismo presidenziale. Di fronte a impuntature o disaccordi, lui fa spallucce. Alla sua maniera, o niente. Dopo il balbettante e inadeguato Giuseppe Conte, ecco l’imperturbabile manovratore. Metodo infallibile: scontentare tutti per non scontentare nessuno. Roba da spellarsi le mani. Come fanno i parlamentari che un anno fa, mentre gli promettono eterna fiducia, annotano le sue promesse sull’immigrazione. Bisogna negoziare in Europa un «nuovo patto per le migrazioni e l’asilo». Quello che penalizza l’Italia, primo Paese d’approdo. Tredici mesi dopo, nulla è cambiato. Gli arrivi proseguono incessanti. Il trattato di Dublino, approvato otto anni orsono, è vivo e vegeto. E al Viminale continua a regnare Luciana Lamorgese.

In quel discorso d’insediamento non mancano neppure i buoni intendimenti sulla pandemia. Basta improvvisazione alla Giuseppi. Il governo, per esempio, avrebbe informato i cittadini «con sufficiente anticipo» di «ogni cambiamento nelle regole». E il guazzabuglio di rocambolesche regole e circolari sui contagi nelle scuola? D’altronde, anche in questo caso, aver affidato un’assoluta «priorità», nelle malferme mani di Patrizio Bianchi, ministro dell’Istruzione, non ha certo aiutato.

I fedelissimi del premier però sono altri. E contano ben di più. Come il sottosegretario alla presidenza, Roberto Garofoli. È stato lui, per esempio, a spalleggiare il premier nell’ultima conferenza stampa su caro energia e crisi economica. Per rimanere alle metafore belliche: è colui che cerca di sminare il campo di battaglia parlamentare. A partire dagli ordigni piazzati sul decreto concorrenza. Antonio Funiciello è il capo di gabinetto. Anche lui deputato a comporre e ricomporre i dissidi nell’eterogenea maggioranza. Francesco Giavazzi è il consigliere economico. Doveva essere il valoroso che, armato di machete, avrebbe disboscato la foresta legislativa e la giungla fiscale. Adesso è l’uomo delle nomine. Ramo società pubbliche, s’intende: niente selvaggi tagli, piuttosto garbate spartizioni. Era un superliberista. Ora assomiglia a un arcistatalista. Lo stesso capita al suo cesare, del resto. Draghi, appunto. Da friedmaniano a colbertista, da supersonico a ultraterreno, da nonno d’Italia a premier con l’elmetto. Tutto e il contrario di tutto. Come un perfetto arcitaliano.

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