Archiviato come commissario straordinario per l’emergenza Covid, il manager che è anche «dominus» di Invitalia deve gestirne ora i costosissimi contenziosi.
Nonostante il contenzioso «monstre» che faldone dopo faldone sta opprimendo Invitalia e le sue partecipate con le sue cifre a nove zeri, quei fascicoli giudiziari vengono trattati con una certa baldanza dall’azienda guidata da Domenico Arcuri, l’uomo che era stato scelto dall’ex premier Giuseppe Conte come commissario straordinario per l’emergenza Covid, con «ampi poteri di deroga» che gli sono costati più di qualche grana per un’inchiesta su una maxi fornitura di mascherine procacciate da improbabili mediatori che erano riusciti a trovare con lui un canale diretto, e defenestrato da Mario Draghi poco dopo il suo insediamento.
Conte deve aver riposto in lui la massima fiducia più per le doti nautiche da appassionato di vela che per le attitudini da «problem solver», dato che nel curriculum di Mr. Invitalia pesava già una sonora bocciatura della Commissione europea, che nel 2012 segnalava gravi carenze e criticità nella gestione degli interventi finanziati dal Programma operativo nazionale «Ricerca e competitività».
Una cosa, però, è certa: Arcuri si è guadagnato sul campo il titolo da uomo buono per tutte le stagioni, perché dalla sua nomina, che è arrivata con il governo Prodi, è rimasto in sella con Silvio Berlusconi, Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. E poi anche con Conte sia nella variante gialloverde sia giallorossa. Ma dopo i flop da commissario per l’emergenza i suoi guai non sono terminati: con la solita spavalderia, tra le altre cose, è tornato a districarsi tra le ingombranti e durature contese giudiziarie dell’azienda. Una voce che pesa non poco sui bilanci e che ha attirato l’attenzione della Sezione di controllo sugli enti della Corte dei conti.
Per il solo contenzioso giuslavoristico, che Invitalia con la consueta spocchia descrive nei bilanci come «fisiologico e marginale», si contano, al 2020 (ovvero quando i giudici della Corte dei conti hanno chiuso la loro ricognizione), ben 73 cause, per un valore complessivo di 8,7 milioni di euro. Ovviamente, nonostante le ottimistiche previsioni, Arcuri è stato costretto ad accantonare fondi per il rischio.
Ma i contenziosi che hanno un peso maggiore sono quelli su cui, nella sede di via Calabria 46, i legali di Invitalia stanno lavorando come fossero all’opera in una sorta di catena di montaggio. E hanno tutti un comune denominatore: il recupero forzato del credito da aziende finanziate forse con troppa nonchalance. Il valore delle cause civili ammonta a 3,1 miliardi di euro. Sono comprese quelle per le misure dell’autoimprenditorialità e dell’autoimpiego, che consistono in incentivi per favorire l’avvio di piccole attività imprenditoriali da parte dei giovani. Alcune vanno avanti da anni. A quelle si sommano le pratiche più recenti. Solo nel 2018 i fascicoli aperti ammontano a 152 milioni di euro. E riguardano ancora una volta le misure d’investimento gestite direttamente da Invitalia.
La voce più corposa, oltre 20 milioni di euro, è per le agevolazioni concesse per sostenere l’avvio di piccole attività imprenditoriali di giovani e donne (un progetto che ora si chiama Nuove imprese a tasso zero). Le cause pendenti, disseminate per l’Italia, sono quasi 300. Seguite da quelle per il bando Smart&start Italia: ha prodotto 12 procedimenti civili, per quasi 3 milioni di euro di valore. E perfino il bando che avrebbe dovuto riqualificare gli stabilimenti industriali in crisi è finito in tribunale ben 14 volte e per oltre due milioni di euro.
A queste cause, che negli uffici a supporto del supermanager vengono definite di routine, poi, bisogna aggiungere quelle per cifre milionarie: un fascicolo caldo, per esempio, è quello con la richiesta avanzata da Navigazione turistica del Golfo srl, che nel 2019 ha chiesto due milioni di danni, citando anche il ministero dello Sviluppo economico e il Comune di Capri, a causa della compravendita (non conclusa da Invitalia) per la cessione della partecipazione della società Porto turistico di Capri. Invitalia si è affrettata a bocciare la domanda di risarcimento, bollandola come «infondata», ma basta dare un’occhiata al bilancio per scoprire che in fondo a un capitoletto dedicato al caso giudiziario è annotata questa frase inquietante: «È prudenziale ritenere come possibile la soccombenza».
Con la Teseco, invece, che ha avviato tre contese per bonifiche in Sicilia da oltre 10 milioni di euro, in uno dei casi, quello per la sistemazione dell’area industriale ex Nissometal di Nissoria (Enna), dal valore di quasi quattro milioni, Invitalia ritiene addirittura impossibile esprimere «una stima puntuale dei rischi». E non è il procedimento da considerare più spinoso, se lo si confronta con quello per il programma di risanamento ambientale e di rigenerazione urbana a Bagnoli, gigantesca area dismessa alle porte di Napoli.
I risultati, come ha già ricostruito Panorama alcune settimane fa, sono stati certificati dalla solita Corte dei conti. Nonostante 442,7 milioni investiti, risultano «realizzate soltanto attività di studio propedeutiche alla progettazione degli interventi di bonifica e di risanamento». Ritardi a parte, a preoccupare i legali di Invitalia c’è un contenzioso milionario per un immobile di una società fallita, la Bagnoli Futura Spa. La proprietà dell’immobile è stata trasferita a Invitalia. La stima del suo valore, che toccava all’Agenzia del demanio e che è stata quantificata in 80 milioni di euro, deve essere andata di traverso allo sherpa di Conte. Che si è opposto.
Ma anche Bagnoli Futura ha respinto la proposta e, a conti fatti, vorrebbe ottenere 275 milioni. Oltre tre volte il valore stimato dal Demanio. La controversia verrà risolta dai giudici della Corte d’appello di Napoli, che hanno disposto una consulenza tecnica. Il contenzioso che lascia più stupefatti, però, è quello di una «partecipata»: la Corte dei conti ha monitorato 36 posizioni passive pendenti a carico di Infratel (società del gruppo Invitalia che opera nel settore delle telecomunicazioni) con un valore di 4 miliardi di euro per crediti maturati che il ministero per lo Sviluppo economico non ha mai liquidato. I passaggi previsti dall’accordo che disciplina i rapporti fra le tre entità non sembrano essere stati mai troppo chiari. Il Mise ritiene ci sia una «illegittimità nella distribuzione degli utili in ragione della necessità che questi siano destinati alla realizzazione del progetto della banda larga e ultralarga».
E siccome, invece, quegli utili sono passati dal bilancio di Infratel a quello di Invitalia, ha chiuso i rubinetti.
La complessità della materia, sostengono da Invitalia, rende l’esito incerto. Ma nonostante la cifra a nove zeri, Mr. Invitalia mostra il petto e nel bilancio ha scritto di ritenere che eventuali decisioni sfavorevoli «non avrebbero riflessi sul bilancio» dell’agenzia. E neppure su quello di Infratel. Sarà. Letta complessivamente, però, la situazione non appare rose e fiori. Tanto che per le spese legali sono stati stanziati ben 415 mila euro e i fondi per i rischi sono schizzati nel 2018 a 6,5 milioni.