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Disastro capitale: il collasso di Roma sotto Virginia Raggi

Il «suo» Movimento 5 stelle è allo sfascio, la città di cui è primo cittadino, anche di più. Il sindaco di Roma si avvicina alle elezioni del giugno 2021 presentando una capitale «terremotata» da immondizia e buche, dal disagio nei trasporti pubblici e dagli scandali. Una gestione fallimentare, che riassumiamo punto per punto.


I Cinque stelle sono a brandelli. Non poteva succedere altrimenti a un Movimento nato per scardinare le poltrone, che alle poltrone s’è incollato. E che, alla prova dell’amministrazione, ha fatto inorridire la sua gente. Lo smacco più grande? Roma. Doveva essere il laboratorio del buongoverno pentastellato. È una… pena Capitale.

Per il sindaco Virginia Raggi, il 2020 sarà cruciale: dovrà blindare la ricandidatura alle comunali, che si terranno tra un anno e mezzo. Il sindaco però fa i conti con lo sfilacciamento della sua maggioranza (i consiglieri pentastellati l’hanno mandata sotto nel voto sulla discarica di Monte Carnevale), oltre che con la bocciatura, sulla piattaforma Rousseau, degli aspiranti «facilitatori» del Movimento vicini al Campidoglio. Una pessima premessa per lei, che invitando i Cinque stelle a «fare una riflessione» dopo le regionali, ha lasciato intendere che vorrà avere voce in capitolo ai prossimi Stati generali.

Certo, con il decreto salva Roma, lo Stato si è accollato la pendenza da 3,6 miliardi, contratta nel 2004 con il «Veltroni bond» (un’obbligazione da 1,4 miliardi, ottenuta a un tasso monstre di oltre il 5 per cento). In più, nel 2021 (alla viglia del voto), l’Urbe uscirà dalla gestione commissariale del debito, liberando risorse per la riduzione dell’Irpef – la più alta d’Italia. Tuttavia, il 91 per cento del bilancio della città (4,8 miliardi) è ancora assorbito dalla spesa corrente. E il biglietto da visita con cui la Raggi si presenterà agli elettori è imbarazzante.

Partiamo dal flagello della monnezza. Risale agli ultimi mesi del 2018 il braccio di ferro tra Lorenzo Bagnacani, allora a.d. di Ama, e il sindaco, che non voleva fosse licenziato in attivo il bilancio della municipalizzata dei rifiuti (la quale reclamava dal Comune 18 milioni di crediti). La Raggi sbottò: «Non posso aumentare la Tari. I romani oggi si affacciano e vedono la merda». «Descrizione perfetta, non c’è da aggiungere una virgola» scherza amaramente con Panorama l’editorialista del Corsera, Pierluigi Battista. «Io sono un privilegiato, abito a Monti. Una zona di movida, vicina ai palazzi del potere… Eppure, sono disperato». In effetti, le immagini dei cumuli di spazzatura, su cui banchettano gabbiani e topi, le ha viste tutt’Italia. E in Ama regna l’incertezza.

La giunta Raggi ha collezionato nomine e licenziamenti dei dirigenti: prima Daniele Fortini; poi Alessandro Solidoro; dopo pochi mesi, Antonella Giglio; a seguire, Bagnacani; finché a ottobre, dopo Massimo Bagati, è stato chiamato Stefano Zaghis (ex portavoce del grillino Marcello De Vito, presidente dell’Assemblea capitolina, coinvolto nell’inchiesta sul nuovo stadio della Roma). L’a.d. ha messo le mani avanti: se il Campidoglio non si decide a realizzare un inceneritore – tabù per i Cinque stelle – quest’anno aumenterà la tassa sui rifiuti. Che è già la più alta del Paese: 268 euro a testa. Bar e ristoranti pagano addirittura il doppio della media nazionale. D’altronde, con quell’imposta Ama incamera 723 degli 800 milioni che costituiscono i suoi ricavi. E i 170 milioni spesi nel 2019 per portare l’immondizia fuori Regione, quest’anno potrebbero diventare 190.

Il punto è che, nel 2013, la giunta Marino e il governatore Nicola Zingaretti chiusero la discarica di Malagrotta, senza che esistesse un progetto alternativo. Dopo aver sfiorato l’emergenza sanitaria, la Raggi ha puntato su un impianto nella Valle Galeria. E ha incassato una serie di no: quello dei tecnici comunali; quello dell’Enav (l’ente dell’aviazione teme che la discarica attragga gli uccelli marini, mettendo a rischio gli aerei di Fiumicino); quello del ministero della Difesa (a 700 metri dal sito sorge un centro interforze); quello dei cittadini (tra cui l’attore Ricky Tognazzi, che è andato a protestare davanti al Comune); e quello di 12 dei 26 consiglieri grillini. In ogni caso, è quasi pronto il progetto da presentare alla Regione: la discarica di Monte Carnevale sarebbe operativa fino al 2025.

L’Urbe produce ogni anno 900 mila tonnellate di indifferenziato. Quei materiali, da qualche parte, vanno stoccati. L’anomalia più assurda dell’Ama è che il 32 per cento dei dipendenti ha un certificato di inabilità al lavoro (contro una media nazionale del 17). Il flop della raccolta è una conseguenza quasi scontata. Nel 2019, i cittadini indignati hanno fatto scoppiare il numero verde, con ben 170 reclami all’ora. L’a.d. Zaghis ora prova a reagire. La scorsa settimana è partita una raffica di visite fiscali. E solo il primo giorno, sei «inidonei temporanei» sono guariti davanti ai dottori. Miracolo. Restano, nondimeno, le grane sui bilanci: manca il documento contabile del 2017 e sono saltati i termini per presentare quello del 2018 (oggetto della famosa contesa da 18 milioni tra la Raggi e Bagnacani).

Non va certo meglio sul fronte del trasporto pubblico. Sono memorabili le scene apocalittiche del bus in fiamme in via del Tritone. Era il maggio 2018 e quel rogo fece temere un attentato islamista. Poi, appreso che si trattava dell’ennesima autocombustione, sui social si scatenò la cinica ironia tipica dei romani: nella Capitale, il pericolo non è l’Isis. È l’Atac. L’elenco dei mezzi andati in fumo è sconvolgente: 32 nell’anno appena trascorso. E nel 2020, il primo rogo s’è acceso già il 3 gennaio. D’altro canto, il parco macchine invecchia: l’età media dei mezzi su gomma è di 13,4 anni; i tram hanno 34 anni. Gli sforzi per adeguare i veicoli sono stati funestati da ritardi e sviste: il bando 2020 per 240 mezzi ibridi, che stava andando deserto ed è stato prorogato; i 70 bus usati noleggiati da Israele, che però erano Euro 5 e quindi non potevano circolare (s’è scoperto che sono andati a finire in Marocco); le lungaggini nella fornitura di autobus turchi, invece di quelli da Tel Aviv. Entro quest’anno dovrebbero arrivare 328 nuovi mezzi. Incrociando le dita…

La disputa più recente riguarda il rinnovo del contratto di servizio per il periodo 2020-2024: il Campidoglio chiede che Atac copra 17 milioni di chilometri in più; Atac risponde che è un obiettivo impossibile. Disastri pure sulle metropolitane. La stazione di piazza della Repubblica, dove a ottobre 2018 erano rimaste ferite decine di tifosi del Cska Mosca nel crollo delle scale mobili, ha riaperto otto mesi dopo. Destino infausto anche per Barberini: la scorsa settimana doveva svolgersi l’ultimo collaudo delle nuove scale mobili. Responso: un freno d’emergenza è rotto. Riapertura rimandata. A settembre, peraltro, i magistrati hanno iniziato a indagare su manomissioni, allarmi ignorati, riparazioni effettuate con pezzi già danneggiati. Insomma: sui guai delle metro aleggia l’ombra dei sabotaggi. Nel frattempo, è partito il piano di interventi su scale e ascensori vetusti, con ulteriori disagi. Da Cornelia (chiusa), a Baldo degli Ubaldi (funzionanti solo 6 scale mobili su 12), alla linea B.

Chi sceglie i mezzi privati non ha più fortuna. «Io uso il bike sharing» racconta ancora Battista «ma non faccio altro che prendere botte alla schiena per via del manto stradale sgangherato. Ed è diventato impossibile passeggiare senza rischiare di rompersi una gamba su un marciapiede sconnesso». Non a caso, in cinque anni, Roma Capitale s’è vista recapitare 12.367 richieste di risarcimento dai cittadini incappati nelle voragini. La beffa finale potrebbe scoperchiarla piazzale Clodio. Le toghe hanno acquisito i bilanci dei municipi: sospettano che i parlamentini abbiano dirottato altrove la quota di ricavi dalle contravvenzioni, che invece andava destinata alla sistemazione delle strade.

Sarà forse per sfuggire a questo caos, che persino un romano doc («dalla punta dei piedi alla cima dei capelli», dice lui) come il comico Maurizio Mattioli, ha lasciato un quartiere «bene» della zona Nord, Collina Fleming, per trasferirsi in campagna. «Adesso vivo a Fiano Romano. Ma in città ci vengo spesso. E a vedere tanto degrado, mi piange il cuore. Sono straziato». La «merda» di cui parlava la Raggi l’anno scorso? «Mi pare che ci sia ancora…».

Né si salvano i parchi pubblici, orgoglio di una città che, per superficie verde, primeggia in Europa. Tanti sono in stato di semiabbandono; il Colle Oppio, accanto al Colosseo, è diventato teatro di spaccio, scippi e risse. Un declino aggravato dall’esternalizzazione del servizio di manutenzione: un autogol che però la Raggi ha ereditato dal passato. Poi c’è la «pioggia» di pini. A febbraio 2019, il sindaco diede la colpa al fascismo: gli alberi risalgono a quell’epoca, «sono giunti al termine della loro esistenza». Logico che cadano. La verità è che l’incuria li ha lasciati in balìa di funghi e parassiti. Poche settimane fa, nel quartiere Trieste-Salario, s’è sfiorata la tragedia: un albero, venendo giù, ha colpito un’auto in transito. Così, in Campidoglio si accarezza un’idea: eliminare i pini di corso Trieste. «La vita non li spezza» cantava Antonello Venditti in Notte prima degli esami. La giunta Raggi potrebbe abbatterli. «Vivere a Roma», conclude Battista, «è come finire nelle sabbie mobili: ti rendi conto che stai affondando, però sai che non puoi fare nulla. Perché un’alternativa politica seria non c’è. Neppure a destra». E il tempo per costruirla ormai stringe.


E la metropolitana è una via cricis

Più che una metro, quella di Roma è una via crucis. Lavoratori e pendolari ormai sono rassegnati ai disagi. I turisti rimangono spaesati. E il Campidoglio, spesso in lite con le municipalizzate, Atac inclusa, sembra impotente dinanzi al disastro.

Molti ricorderanno l’incidente avvenuto il 23 ottobre 2018 alla stazione di piazza della Repubblica: decine di tifosi del Cska di Mosca, che imprudentemente s’erano messi a saltare e cantare sui gradini, si ferirono nel crollo della scala mobile. La metro è rimasta incredibilmente chiusa per otto mesi. Un periodo durante il quale le attività commerciali della zona, a cominciare dai negozi sotto i portici dell’ex piazza dell’Esedra, hanno patito un altro crollo: quello del loro giro d’affari. A maggio 2019, l’Assemblea capitolina aveva indirizzato una mozione alla giunta, affinché fossero approvati sgravi fiscali in favore degli esercenti del quartiere. Ebbene: a febbraio 2020, non s’è mosso ancora niente. Neppure un contatto tra amministrazione comunale e comitato dei piccoli imprenditori.

D’altronde, persino quando, con fatica, le metropolitane romane riaprono i battenti, il traguardo è sempre dimidiato. È il caso della fermata di piazza Barberini, vicina a una delle mete turistiche più visitate dell’Urbe: la fontana di Trevi. Meno di due settimane fa doveva svolgersi l’ultimo collaudo delle scale mobili. Ma, proprio in quel momento, s’è rotto un freno d’emergenza. La sospirata riapertura è arrivata questo martedì. Eppure, gli altoparlanti del vagone, per tutta la mattinata, non se n’erano accorti: «Prossima fermata: Spagna. Next stop: Spagna», recitava il disco, anche se il treno scaricava passeggeri alla fermata in prossimità di via Veneto.

Per carità, questo sarebbe il minimo. Magari i pendolari di Roma dovessero solo preoccuparsi degli avvisi acustici sfasati. Il problema è che Barberini ha sì riaperto, però soltanto a metà. Si esce, ma non si entra. E nessuno sa quando la stazione tornerà in funzione al 100%. Mistero della fede, la fede di chi ancora spera che nella Capitale d’Italia qualcosa possa funzionare come nelle altre metropoli europee. E pensare che il presidente della commissione Sport del Campidoglio, il pentastellato Angelo Diario, sui social ha persino ironizzato: «Se una metro chiusa provoca danni economici per i quali si dovrebbe ricevere un risarcimento, allora una metro aperta comporta benefici economici per i quali si dovrebbe pagare una tassa?». Insomma, cari commercianti tra Repubblica e Barberini: state buoni, tollerate i disagi. Oppure i geni del M5s vi precipiteranno nel sommo paradosso: una tassa sulla normalità.

Sulle metropolitane romane, il caos regna sovrano. Lo confermano persino i report dell’Atac. Sempre sulla linea A, si registra la chiusura di Cornelia. A Battistini il tallone d’Achille restano le scale mobili (ne funziona la metà). Fuori uso pure i montascale in varie stazioni. Lungo la linea B1, in viale Libia, non funzionano gli ascensori. E chi la prende, sa cosa vuol dire: la ferrovia, per attraversare il letto del fiume Aniene, è costruita molto in profondità. Ci sono da percorrere sei piani di scale mobili, protagoniste di un’inquietante intercettazione telefonica di alcuni mesi fa tra dirigenti Atac, che commentavano così un guasto capitato sulla rampa: «È lo stesso di Barberini. Famoce i fatti nostri». «Non hanno alzato il polverone, se no arriva la Procura». Ma, se non arrivano i giudici, arriva il degrado: come documentava a fine 2019 un blog di cittadini attivisti, a sette anni dall’apertura, la fermata del quartiere Africano aveva pavimenti sfasciati, pannelli spezzati e mura imbrattate. A Roma, la «dolce vita» era una vita fa.

Alessandro Rico

Gli altri sindaci grillini hanno perso tutte le stelle

Rinfrancato dall’insperato trionfo emiliano-romagnolo, ma impensierito dall’ennesimo capitombolo grillino, Giuseppi ha sfoderato la calma dei forti: «Non mi preoccupa la parabola dei Cinque stelle, non hanno mai brillato a livello territoriale. È un movimento senza una solida base organizzativa». Due generosi eufemismi. L’opacità sottolineata dal premier Giuseppe Conte è piuttosto una tenebrosa sequela di sfaceli. E le milizie locali grilline sono diventate, in tutt’Italia, gruppuscoli di attivisti disposti a ogni cosa pur di accaparrarsi gli ultimi posticini: in penombra più che al sole. Vedi la recente cernita, via piattaforma Rousseau, degli altisonanti ma improbabili «facilitatori regionali».

Se in Parlamento le truppe continuano a rompere le fila a suon di diserzioni e guerriglie, la favola di ribaldi sindaci, assessori e consiglieri comunali è diventata un libricino tematico ricco di disfatte e malefatte. Tutto comincia otto anni fa, quando un pentastellato viene eletto alla guida di Sarego, nel vicentino. Il prescelto è Roberto Castiglion, ingegnere informatico. Beppe Grillo esulta: «Sarego è la prima terza repubblica!». La prima e l’ultima. Anzi, l’unica: Castiglion è il solo sindaco confermato dopo un mandato. Per il resto, i protettorati dei Cinque stelle sono diventati villaggi gallici. Senza Asterix né Obelix. E senza pozioni magiche da far tracannare agli elettori.

Un tracollo via l’altro, oggi il Movimento governa con alterne fortune solo 48 città o paesi: lo 0,5 per cento degli 8.000 comuni italiani. Le prodezze di Virginia Raggi, a Roma, e Chiara Appendino, a Torino, sono ormai rinomate. Ma non meno significative sono le ardite imprese degli altri amministratori per caso. Promettevano di rivoltare municipi e aule consiliari come calzini. Basta cacicchi, affarismi e furbizie. Onestà, onestà e ancora onestà.

Macché. Inchieste giudiziarie, guerre fratricide e città allo sbando. L’ultima giunta a cadere sotto i colpi di furibonde liti interne è quella di Imola. Proprio nella ridente Emilia-Romagna, già culla del grillismo, dove il Movimento ha appena raccolto il 4,7 per cento alle regionali. L’ormai ex sindaca Manuela Sangiorgi ha lasciato qualche settimana fa: «Sono stata commissariata per 15 mesi. Quando venivo in Comune era come entrare nella foresta dei pugnali volanti. Alcuni Cinque stelle pensano che guidare una città sia come guidare un comitato. Il Movimento è morto». Nell’attesa lei si sarebbe avvicinata alla Lega, dove già milita il compagno.

Ha scelto invece il Pd l’ex sindaco di Comacchio, Marco Fabbri, appena eletto consigliere regionale. Mentre l’avvocato Rossella Ognibene, ex aspirante primo cittadino a Reggio Emilia, ha mollato la poltrona al montar delle polemiche. Alla politica ha preferito la toga: o meglio la difesa di Federica Anghinolfi, ex dirigente dei servizi sociali della Val d’Enza, tra i principali indagati dell’inchiesta sugli affidi illeciti a Bibbiano. Al posto della Ognibene, però, in consiglio comunale è entrato un altro peso massimo pentastellato: il wrestler Mistero, al secolo Cristian Panarari, già nella bufera per un testosteronico tweet sulle azzurre di calcio femminile. E pure a Venaria, unica città del torinese guidata dai Cinque stelle, il sindaco Roberto Falcone ha gettato la spugna. Stremato da furibonde spaccature e dall’inerzia che bloccava «la manutenzione di strade e scuole».

Erano gli sceriffi della legalità. Uno dopo l’altro, hanno perso le stelle che il Movimento gli aveva appuntato sul petto. Notissima la parabola di Federico Pizzarotti: eletto sindaco di Parma nel 2012, già Stalingrado grillina, è oggi un indomito nemico. Cacciato. Come Rosa Capuozzo, ex prima cittadina di Quarto, in Campania. O Domenico Messinese, a Gela. Sempre in Sicilia, dopo gli ineguagliabili osanna degli esordi, viene ferocemente allontanato Patrizio Cinque, ex sindaco di Bagheria coinvolto in due inchieste giudiziarie.

Pochi chilometri più in là, Ugo Forello, già candidato alla guida di Palermo, a luglio 2019 è espulso dal collegio dei probiviri. Mentre continua a lottare per la causa Filippo Nogarin, che ha deciso di non ripresentarsi a Livorno tentando l’elezione a Bruxelles. Respinto con perdite, resta indagato con l’accusa di omicidio plurimo colposo per l’alluvione del settembre 2017. Lo scorso ottobre è invece condannato a un anno per abuso d’ufficio l’ex sindaco di Assemini, Mario Puddu: aspirante governatore in Sardegna, viene dunque costretto a rinunciare alla corsa.

Un altro campionissimo del Movimento era Fabio Fucci: il 10 giugno 2013 issa per primo la bandiera pentastellata su un municipio laziale. Grillo e gli adoranti big decantano il «sistema Pomezia». Eppure l’incorruttibile Fucci, scelto perfino dalla Raggi come vicesindaco della città metropolitana di Roma, quattro anni più tardi è già un sovversivo da rinnegare. Quando osa ribellarsi alla regola dei due mandati, ottiene in cambio l’addio in massa dei suoi consiglieri. Fucci non si abbatte: così passa armi e bagagli alla Lega. Intanto a Pomezia arriva un’altra giunta grillina. Si sta facendo le ossa, tra una polemica e l’altra. Ecco l’ultima: essersi aumentata lo stipendio, a disdoro dalla Corte dei conti, il giorno dopo l’insediamento. O la penultima: aver vietato il riposino pomeridiano negli asili. Ma si vivono giorni tribolati pure a Licata, nell’Agrigentino: sindaca sfiduciata dai suoi, dimissioni a raffica e comune in dissesto finanziario.

Le dissavventure amministrative, in questo cupio dissolvi, si mescolano a quelle personali. Lo scorso aprile è indagato per presunti abusi edilizi Mario Savarese, sindaco di Ardea, vicino Roma. Niente paura, però. Lui, lesto, annuncia: «Prontamente interverrò come mi sarà indicato». «Non vi erano grosse irregolarità» commenta invece il vice sindaco di Pantelleria, Maurizio Caldo, vittima di un esposto sulla piscina della sua villetta. E promette che eventuali difformità saranno regolarizzate presto. L’onestà prima di tutto, ci mancherebbe. In ben altri guai è finito Marco Gasperi, ex candidato sindaco a Città di Castello. è sospettato di essere entrato in una sala scommesse, pistola in pugno, per farsi consegnare 4.500 euro. Nega: «Proverò che ero altrove». Un mese fa gli avrebbero notificato la chiusura delle indagini.

Decisamente più modesti gli addebiti per Davide Rossi, il vicesindaco di Sedriano, primo comune lombardo a sperimentare la cura pentastellata. è inciampato in un’arcitalica furberia: una di quelle che fanno però imbufalire gli intransigenti compagni di partito. L’atletico Rossi usava con la sua auto un pass per disabili, perdipiù del padre morto. Colto sul fatto, prima svicola: «Non è obbligatorio riconsegnarlo». Poi rettifica: «L’ho tenuto come ricordo». Infine riformula: «Devo averlo confuso con quello di mia madre». Il sindaco di Sedriano, Angelo Cipriani, maresciallo della Guardia di finanza prestato alla causa pentastellata, segue però una pista investigativa diversa: una vendetta degli avversari.

Peccatucci veniali. Solo un difetto di forma invece per l’impavido sindaco di Porto Torres, Sean Wheeler. Lo scorso settembre, alla solenne commemorazione dei 1.700 militari caduti al largo delle coste sarde, si presenta in bermuda, polo e fascia tricolore. Autorità e abitanti s’indignano. Ma Sean il rivoluzionario, coda di cavallo e heavy metal nel sangue, li trafigge con un irraggiungibile sillogismo: «Quando mi sono laureato avevo i capelli viola. Eppure ho preso 110 e lode…».

Antonio Rossitto

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