C’è la «narrazione verde» e c’è la realtà di un’economia mondiale che non accetta una transizione ecologica accelerata come quella che prevede l’Unione europea. Il costo è una perdita di occupazione e aumenti indiscriminati dei prezzi. Siamo disposti a pagarlo?
Anche Greta Thunberg è rimasta a piedi, lo scorso 25 luglio. Per «problemi logistici» non ha potuto raggiungere Torino dove si celebrava il raduno europeo dei Fridays for Future e così tutto è rinviato a settembre, magari quando farà più fresco… Nonostante a reti unificate si continui a martellare sul cambiamento climatico colpevole delle temperature da record e della siccità da incubo, sembra inceppata la grande macchina del consenso per tutto ciò che è «verde». E la paura di restare a piedi, appunto, o meglio in mezzo al guado della transizione ecologica, sta attanagliando industrie e persone. Se mancasse completamente il gas russo la stima è che l’Europa pagherebbe con l’1,2 per cento di Pil in meno e un punto in più d’inflazione e la ricerca di energie alternative costerebbe 200 miliardi di dollari in un anno. Per le famiglie italiane rinunciare al gas russo significa 3.200 euro in più all’anno. Sostituirlo con il gas liquefatto americano – che è il più inquinante del mondo perché è estratto dalla frantumazione delle rocce e arriva «via gasiere», navi comunque inquinanti – costa il doppio. Prendiamo a riferimento quotazioni non distorte dall’effetto guerra: a dicembre 2021 il prezzo del Gnl americano per mille metri cubi è stato di 415,3 dollari, quello di Gazprom era di 273 dollari. Sperare che le rinnovabili ci tolgano da questa dipendenza è oggi impossibile.
Non bastano gli impianti, ma soprattutto non c’è modo di stoccare l’energia prodotta. Quella dell’ansia da prestazione verde – al netto delle truffe finanziare per miliardi di dollari con il «greenwashing», che fa più buone le imprese, e con i titoli ecologici come ha dimostrato l’inchiesta su Deutsche bank- è oggi la peggiore minaccia all’economia globale. Lo ha detto chiaro e tondo il numero uno della Ford Jim Farley «abbiamo la necessità di accrescere il margine operativo al 10 per cento entro il 2026 e di tagliare almeno 3 miliardi di dollari di costi strutturali l’anno». Se l’orizzonte è quello delle auto elettriche bisogna liberarsi di manodopera. Bloomberg stima che la Ford licenzierà 8 mila addetti solo negli Stati Uniti. Perché il settore della mobilità è il primo a essere colpito dalla rivoluzione verde. La proiezione l’ha fatta sempre la Deutsche Bank: in Europa sono a rischio 840 mila posti di lavoro.
In Cina si stanno fregando le mani: sono di gran lunga i primi costruttori di batterie assemblate usando energia fossile senza cui le auto elettriche ovviamente non si muovono. Il 9 giugno scorso il Parlamento europeo con una clamorosa spaccatura della maggioranza «Ursula» (i popolari hanno votato contro; gli eurodeputati italiani si sono divisi: il Pd ha votato per lo stop, Lega e Forza Italia contro, ed era ancora nel pieno delle sue funzioni il governo Draghi) si è consegnato nelle mani di Pechino. Gli unici che vogliono fortissimamente i veicoli elettrici sono i tedeschi del gruppo Volkswagen. Hanno licenziato dall’oggi al domani l’amministratore delegato Herbert Diess perché avrebbe dubitato del diktat elettrico. Il primo azionista della casa di Wolfsburg con il 20 per cento del capitale e la golden share in mano è il governo della Bassa Sassonia e a Berlino c’è il cosiddetto «governo semaforo» con i Verdi, che vedono inquinamento dappertutto.
Proprio in Bassa Sassonia si vota in ottobre. Difficile smentire in casa la scelta tutta green imposta dalla Germania all’intera Europa attraverso Ursula von der Leyen. Al posto di Diess arriva Oliver Blume, ceo di Porsche che però è al terzo richiamo della Taycan, il suo bolide tutto elettrico (120 mila euro il modello che costa meno). Ne ha richiamati prima 200 mila perché si scaricava la batteria ausiliaria, poi 12 mila, ora altri 40 mila. Tutti avevano gridato al miracolo: nessuno vende auto, ma Porsche con la sua elettrica ha piazzato in un anno 310 mila pezzi. Supercar e batterie però non devono andare troppo d’accordo.
In Emilia-Romagna – terra di Ferrari, Maserati, Lamborghini, Pagani, che hanno avuto grazie a Lega e Forza Italia una deroga di cinque anni sull’emissioni zero – il presidente della Regione Stefano Bonaccini, l’uomo (semi)nuovo del Pd, il 2 febbraio di un anno fa twittava orgoglioso: «Il futuro è qui nella “motorvalley”: un investimento da un miliardo per produrre l’auto elettrica. I cinesi di Faw e gli americani di Silk EV scelgono l’Emilia-Romagna. Occupazione e sostenibilità». Un anno e mezzo dopo il povero Bonaccini, che ai cinesi aveva promesso 4,5 milioni di euro di contributo, ha fatto retromarcia: «Se non vediamo gli investimenti non daremo un centesimo». Anche la ex Fiat chiude lo stabilimento in joint venture con la Gac in Cina per produrre le Jeep. In Italia sono a rischio 60 mila posti di lavoro, 700 li hanno già licenziati alla Bosch, altri 350 alla Magneti Marelli e Gian Primo Quagliano, presidente del centro studi Promotor sull’automotive, è ultimativo: «L’Europa sogna l’auto elettrica, ma il mercato affonda».
In tre anni se n’è perso oltre la metà: 10 milioni di veicoli venduti in meno con cali del 24,3, del 21,7 e del 16,8 per cento nel 2020, nel 2021 e fino a questo giugno. Ma il Vecchio continente non fa un passo indietro: i piani Fit For 55 e Green deal, avanti a tutta forza. Verso dove? Una cosa è certa: nessuno si cura degli oltre 40 mila tra bambine e bambini che nel sud della Repubblica democratica del Congo estraggono a colpi di piccone, soprattutto nella regione del Katanga, il prezioso cobalto e il rarissimo coltan che servono per costruire le batterie delle auto elettriche. Per 12 ore di lavoro guadagnano 2 dollari. I committenti sono i cinesi che con cinque fabbriche, quella più grande è la Catl, detengono il 79 per cento del mercato delle batterie. In una «pila» media sono contenuti 15 chili di cobalto e quasi altrettanti di litio che arriva dal Sudamerica dove, dopo l’Africa, Pechino ha avviato un’ennesima espansione geopolitica. L’interscambio commerciale col Mercosur e passato da 12 miliardi del 2015 a 315 miliardi di dollari nel 2019. Il 75 per cento dei pannelli solari che l’Europa importa per il suo Green deal viene dalla Cina che ha il leader di mercato assoluto: la Longi Green. Nel piano Repower Eu (ora bocciato dalla Corte dei conti di Bruxelles) l’Unione prevedeva di investire 300 miliardi di euro in pannelli solari. La presidente della Commisione, Von der Leyen, per sganciarci dal gas russo porta i soldi al primo alleato di Vladimir Putin. Con un’ulteriore enorme menzogna. I pannelli solari che hanno una vita media di 20 anni, le batterie per le auto non durano più di 8, sono rifiuti che non si sa come smaltire, la Cina però li sta costruendo e ricorre a carbone e gas russo.
Su una leadership il Dragone però è in parziale ritardo: i microprocessori indispensabili per tutta l’elettronica, auto comprese. È Taiwan la mecca. La Tsmc detiene quasi il 60 per cento del mercato, l’altro colosso è la Samsung coreana. L’Europa ha provato a corteggiare Tsmc, ma gli Stati Uniti sono in vantaggio e Pechino tiene Taiwan comunque sotto tiro. Perché oltre alla «minaccia» militare ha l’ingrediente principe dei microchip: le terre rare. C’è aria di conflitto: si veda la collera della Repubblica cinese per la visita della speaker della Camera americana Nancy Pelosi sull’isola al centro delle tensioni. Anche in Ucraina si spara per i microchip: Kiev ha il neon indispensabile per lavorarli. Ovvio che Washington lo voglia per fare bingo con Taiwan. Ovvio che Pechino, via Russia, lo voglia per far venire a patti Tsmc. Sì, i microcircuti sono una tessera indispensabile nel mosaico verde, ma di green hanno assai poco.
In ogni caso l’Europa – che in forza del Green deal sta rinunciando anche alla sua agricoltura – è avviata alla decrescita infelice. Lo dimostra la difficoltà che si incontra a coniugare sviluppo e transizione ecologica. Il nostro ministro competente Roberto Cingolani lo ha spiegato bene un anno fa: «La transizione potrebbe essere un bagno di sangue». Un mese fa ha detto basta con la propaganda sulle rinnovabili e le auto elettriche. Per far circolare le auto italiane (circa 39 milioni di veicoli) servono ulteriori 65 terawatt/anno. Significa aumentare del 20 per cento il consumo di elettricità che oggi è pari a 310 terawatt anno, ne produciamo 273; le rinnovabili tutte insieme non arrivano a coprire più del 30 per cento del fabbisogno. Sempre guardando alle auto da qui al 2035 serviranno in Europa 65 milioni di colonnine di ricarica. Oggi sono 340 mila. In Italia se ne contano a malapena 30 mila.
Ecco, i numeri per il Green deal non ci sono. E lo si vede anche con il piano del gas. Si va verso un inverno di limitazioni, con prezzi fuori controllo e una dipendenza ancora marcatissima dalle fonti tradizionali. Smentendo sé stessa la Commissione von der Leyen ha riabilitato il carbone come fonte di transizione (e comunque inchioda la Ue a traguardi che ci mettono fuorigioco perché il resto del mondo continua a inquinare, soprattutto i Paesi in via di sviluppo che non accettano di fermare le loro economie per salvare la Terra facendo un piacere a chi l’ha inquinata per primo). Stesso discorso di deroghe vale per il gas e la Germania che aveva deciso lo stop al nucleare sta tornando all’atomo. C’è l’alternativa del gas naturale liquefatto, si diceva. Peccato che sia difficilmente percorribile ed economicamente onerosa. Si sta discutendo delle due nuove navi col rigassificatore che dovranno andare a Ravenna e a Piombino dove l’opposizione della popolazione è fortissima (si veda il servizio a p. 17).
Abbiamo basato il nostro modello di sviluppo sull’energia a basso costo: tocca rivedere – e di molto – le previsioni. Oltre l’80 per cento delle merci mondiali viaggia via mare, ma solo il 3 per cento della flotta utilizza biocarburanti. Se restano i divieti europei, le merci viaggeranno al massimo a 10 nodi, con la previsione del raddoppio secco nel prezzo dei noleggi (già oggi un container sulla rotta Shanghai-Genova è passato da 3 mila a 16 mila euro), un’ulteriore strozzatura nelle forniture che significa ulteriore inflazione. Il Fondo monetario internazionale commenta così: «L’economia globale deve fare i conti con prospettive cupe». È probabile che Green deal non significhi «Patto verde», piuttosto «Siamo al verde».
