A 71 anni l’ex premier e segretario del Pd rimane un protagonista nelle relazioni di potere grazie a una serie di amicizie con politici, banchieri e imprenditori. E ora è pronto per lui un nuovo incarico da lobbista per Ernst&Young, colosso della consulenza Usa.
Con Massimo D’Alema, a Palazzo Chigi c’era «l’unica merchant bank dove non si parla inglese», scolpì l’avvocato Guido Rossi dopo la sua inopportuna benedizione alla scalata Telecom di Roberto Colaninno. Ventun anni dopo, il primo e unico esponente del Pci ad aver fatto il premier, non solo ha imparato l’inglese, ma lo esercita ai massimi livelli con Ernst&Young, uno dei «Big four» della revisione e della consulenza mondiali, insieme a Kpmg, Deloitte e PricewaterhouseCoopers. Prima politico, poi velista, quindi produttore di vino e ora, a 71 anni, ecco la quarta rivoluzione personale come lobbista d’alto bordo e strategist per EY Italia, tra nomine pubbliche e rapporti internazionali, con la Cina innanzitutto. Con uno spettro di azioni e relazioni che va oltre la semplice banca d’affari.
L’ufficialità dell’ingaggio ancora non c’è, ma negli ultimi due mesi D’Alema ha riunito già due volte il neonato advisory board di EY, nel quale dovrà coinvolgere una serie di professionisti di sua fiducia. L’ex premier era consulente già da qualche anno, in parallelo alla collaborazione che va avanti dal 2017 tra EY e Italianieuropei, la fondazione politica che ha creato nel 1998 e che presiede.
A offrirgli la guida del prestigioso comitato, con un emolumento che si aggira intorno ai 300.000 euro l’anno, è stato Donato Iacovone, storico capo di EY nella Penisola, che da poco ha abbandonato il colosso americano per limiti d’età ed è diventato presidente, anche con l’aiuto dello stesso D’Alema, di Webuild. Il nuovo colosso delle costruzioni ha salvato Astaldi ed è guidato come a.d. da Pietro Salini per conto di Salini Impregilo (45%), con la partecipazione di Cassa depositi e prestiti (18,68%), Unicredit (5,27 per cento) e Intesa Sanpaolo (5,27%).
Nella nascita di Webuild, fondamentale per la ripresa dell’economia italiana e forte di un portafoglio ordini da oltre 42 miliardi in tutto il mondo, D’Alema ha avuto un ruolo importante, specialmente nel far maturare il consenso di Cdp su Salini Impregilo come aggregatore. Del resto, l’ex segretario dei Ds è uno storico amico di Pietro Salini, anche grazie ai comuni rapporti con il banchiere romano Cesare Geronzi. Nell’ultimo tavolo di nomine pubbliche, D’Alema si è presentato con il cappello del partito di cui fa parte, Liberi e Uguali, anche se va detto che a conti fatti sono loro, i Bersani e i Fratoianni, a far parte del partito di D’Alema.
Basta vedere la composizione del comitato d’indirizzo di Italianieuropei, dove al fianco di Roberto Speranza, ex segretario di Articolo 1 e ministro della Salute, compaiono Francesco Boccia, ministro per gli Affari regionali (Pd) e Nicola Zingaretti, presidente del Lazio e segretario del Pd, ma anche Andrea Riccardi, fondatore di quella sorta di Farnesina ombra che è la Comunità di Sant’Egidio. D’Alema mantiene inoltre un solido rapporto con Gianni Letta, necessario quando le nomine devono essere bipartisan (come nelle autorità indipendenti) e ha un’antica amicizia con Roberto Gualtieri, il ministro dell’Economia.
Forse anche per questo, in primavera, il suo nome era girato come possibile presidente dell’Eni, ma il veto dei Cinque stelle è stato insormontabile e alla fine l’ha spuntata la giurista Lucia Calvosa. D’Alema ha comunque portato avanti i suoi uomini. Primo fra tutti Domenico Arcuri, a.d. di Invitalia e commissario straordinario per l’emergenza Covid-19. E poi, oltre a Iacovone, ha sponsorizzato la nomina di Rodolfo Errore, ex partner di EY Italia, come presidente di Sace (controllata di Cdp), nel cui consiglio già sedeva.
Per capire che cosa può significare per EY Italia, ora guidata da Massimo Antonelli, l’ingaggio di un D’Alema basta scorrere l’elenco dei grandi gruppi che nel 2019 si sono affidati ai suoi servigi, per un fatturato che ha toccato i 350 milioni di euro. Tra le aziende di Stato spiccano Enel, Eni, Saipem, Enav, Monte dei Paschi di Siena (del quale il Tesoro ha il 68%) e la Carige, appena salvata con la regìa del governo. Tra i privati, si trovano Generali, Aeroporti di Roma, A2A, Banca Finnat, Buzzi Unicem e Crédit Agricole.
Gli ottimi rapporti con la Cdp guidata da Fabrizio Palermo (anche sua sorella Luisa lavora in EY come dirigente), oltre che dalla consulenza fornita per l’operazione Webuild, sono stati suggellati dalla recente nomina di Enrico Resmini al vertice di Cdp Venture capital sgr-Fondo Nazionale Innovazione. Anche Resmini è un ex partner di EY Italia. Molto indicativa della nuova stagione dalemiana anche la nomina di Carlo Cerami nel cda della Cassa, avvocato milanese che è stato per anni l’anima e la guida della filiale meneghina di Italianieuropei.
Una dimostrazione della potenza di EY Italia in formato D’Alema è andata in scena lo scorso 4 giugno a Roma, quando la casa di consulenza ha messo intorno allo stesso tavolo, per parlare di «ripartenza», il premier Giuseppe Conte, il ministro Gualtieri, Donato Iacovone (come weBuild), l’industriale Giuseppe Lavazza, Carlo Messina di Intesa Sanpaolo, Fabrizio Palermo, Francesco Starace di Enel, Antonio Tajani e Nicola Zingaretti. D’Alema era tra i relatori come presidente della sua fondazione, ma era decisamente di casa. L’asse Pd-Forza Italia, convergenza sul Mes a parte, su questi temi c’è sempre e D’Alema ne è il campione.
Il fatto è che il «banchiere» D’Alema, anche per il generale abbassamento di livello della sedicente classe dirigente, è ormai di casa ovunque e ci tiene a presentarsi come portatore di visioni autonome. Proprio sul Mes, il Fondo salva Stati che vede assolutamente contrario il suo partito e il segretario Nicola Fratoianni, l’ex premier invece è allineato con personaggi come Enrico Letta e Gualtieri (e Silvio Berlusconi). «Sono favorevole all’utilizzazione del famoso Mes, perché si tratta di una disponibilità rilevante di risorse che devono essere destinate al sistema sanitario», ha detto D’Alema parlando all’Eurispes il 19 giugno.
E alla fine ha portato sulle proprie posizioni anche Speranza. Ma anche il semaforo verde al fondo Ue è una sorta di business card, una posizione obbligata per restare al centro dei giochi e che va messa insieme all’altra strategia espressa più volte, ovvero che «Pd e Cinque stelle devono stare insieme». Nulla di più distante dei grillini dalle convinzioni di D’Alema, che della politica ha una concezione ben più aristocratica, ma l’ex premier sa che il prossimo presidente della Repubblica dovrà avere i loro voti.
D’Alema è stato anche ministro degli Esteri con Romano Prodi a Palazzo Chigi e anche questo bagaglio è utile per la sua nuova vita da super consulente. A metà febbraio, quando ancora ci si poteva abbracciare, è corso alla sede romana della Cgil a festeggiare l’ex presidente brasiliano Inácio Lula da Silva e «la sua grande battaglia per la libertà». Ma la sua vera passione è per la Cina di Xi Jinping. Anche nel suo ultimo libro (Grande è la confusione sotto il cielo, Donzelli Editore), nel quale ha raccolto le proprie lezioni alla Link Campus University di un altro grande amico come Enzo Scotti, D’Alema ha dedicato passaggi notevoli al governo di Pechino. Per esempio, sul coronavirus, ha concesso che «il ritardato allarme è il prezzo pagato alla mancanza di libertà».
Ma liquidato questo piccolo e fastidioso particolare, ha aggiunto: «La forza della risposta, la coesione e la disciplina con cui i cinesi hanno saputo arginare l’epidemia e rimettersi in cammino dimostrano non solo l’efficacia di un sistema in cui la politica è in grado di prendere decisioni ed eseguirle, ma anche la robustezza delle radici culturali e civili della potenza cinese». E come la Cina, anche lui si è rimesso in cammino. Più che nel suo piccolo, nel suo grande.
