Un modello economico di grande successo – ma molto squilibrato – è giunto al capolinea in Germania. E sulle rovine dell’industria fa fortuna la destra massimalista di AfD.
La consistenza della destra nazionalista di AfD in Germania, così come la rapidità della sua crescita, stupisce molti osservatori. Eppure Alternative für Deutschland (AfD appunto) è rimasta a lungo ai margini dei «radar» degli analisti, che ne registrarono un primo momento di crescita sostanziale solo alle politiche del 2015, per poi arrivare a un 10 per cento nel 2021. Da allora questa percentuale è pressoché raddoppiata, facendone il secondo partito tedesco a livello nazionale nelle principali rilevazioni, e in alcuni Länder dell’Est è oggi il primo partito.
C’è dell’altro: le sue dimensioni ingombranti rendono sempre più difficile tagliarla fuori dai governi locali. Le cronache politiche propongono continue discussioni tra le figure di spicco dei cristiano-democratici sulla linea da tenere rispetto alla AfD. Parlarci, a rischio di venire castigati dalla fetta di opinione pubblica per la quale l’AfD è una formazione massimalista, e dai partner statunitensi che la considerano una quinta colonna di cinesi e russi? Oppure ignorarla, ma rischiare così di assistere alla sua inesorabile crescita?
Intervistato da UnHerd, l’economista tedesco Wolfgang Munchau ritiene che il successo di AfD e le ombre lunghe che getta siano figlie del modello economico tedesco e dei suoi travagli. L’analogia tra l’Est della Germania, dove AfD la fa da padrone, e i cosiddetti flyover states americani regge fino a un certo punto. «Alternativa per la Germania» non cresce solo perché l’economia tedesca va male, ma perché è in crisi un intero modello economico basato sull’industria e che per anni ha goduto del «doping» dell’energia a basso costo russo. Si è trattato di una formula molto sbilanciata che per molto tempo ha dato risultati formidabili, con avanzi delle partite correnti stabilmente sopra l’8 per cento del Pil. Di colpo, l’invasione russa dell’Ucraina ha messo fine a questo modello. Il plesso industriale tedesco si ritrova di colpo nudo, con un sistema di prezzi e salari che lo rendono insostenibile. Anche in piena estate, la Germania sta continuando a sperimentare un notevole aumento dei prezzi – ad agosto si è attestato a circa il 6,1 per cento, leggermente inferiore al 6,2 per cento di luglio – non solo a causa della crisi energetica e alimentare, derivata dal conflitto, che ha avuto un impatto sostanziale sull’economia nazionale. Anche le restrizioni della produzione di petrolio da parte dell’Opec, così come le misure temporanee di sostegno introdotte l’anno scorso dalla coalizione di governo tedesca, hanno contribuito all’aumento dei prezzi. Diversi economisti si spingono ora a ipotizzare l’imminenza di una «quarta onda» inflattiva legata al significativo incrememnto salariale previsto in tutta Europa, che potrebbe far salire i prezzi dei servizi in Germania nel corso del 2024.
A soffrire parecchio è, in particolare, il settore automobilistico tedesco. Tobias Piller della Frankfurter Allgemeine ricorda che l’obiettivo della coalizione di governo tedesco di avere 15 milioni di auto elettriche entro il 2030 in Germania potrà essere centrato solo con produttori esteri. Le case automobilistiche tedesche, infatti, possono al massimo sfornare 11,7 milioni di veicoli green in Germania entro il 2030. I produttori cinesi, per contro, hanno costi più bassi di 2 mila euro per batteria per auto elettrica, il che porterà a un incremento della quota di mercato cinese in Germania. I prezzi più competitivi di Pechino si spiegano con il dominio dell’intera catena del valore: i cinesi detengono oltre la metà della lavorazione delle principali materie prime per batterie, godendo così di costi considerevolmente più bassi (tra 13 e il 27 per cento in meno) per una batteria da 60 kWh.
Per rimanere competitivi, i colossi tedeschi stanno ripensando in fretta e furia le proprie strutture produttive, spostandole dove i fattori produttivi costano meno oppure abbondano i sussidi. Molti gruppi tedeschi aprono per esempio fabbriche negli Usa per beneficiare dei sussidi senza precedenti dell’IRA (Inflation Reduction Act) statunitense. Altri invece si spostano sulle sponde meridionali del Mediterraneo (il Marocco è per esempio oggetto di una pacifica «invasione» di realtà industriali tedesche da qualche mese a questa parte). Altri ancora, infine, continuano a guardare verso Oriente. Si prenda il caso del colosso della chimica BASF, che ha appena annunciato un investimento da 10 miliardi di euro in Cina, e ha anche reso pubblica l’intenzione di ridurre strutturalmente la sua presenza industriale in Europa. A farne le spese è sempre il nucleo industriale tedesco, e a trionfare sulle sue spoglie è l’AfD.
L’autore, Francesco Galietti, è esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar
