A dir la verità, non si sono mai piaciuti. Ma ora, tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni, è calato il gelo. Su tutto: dalle concessioni balneari ai rincari sulle bollette. E mentre il leader della Lega viene punzecchiato anche dai suoi, la crisi non risparmia nemmeno i fedelissimi di Forza Italia, che continuano a fare baruffa tra loro. Avanti così dunque, tutti contro tutti. Nella fibrillante attesa dei prossimi duelli.
No, non s’erano tanto amati. E non sono come i due spasimanti di Antonelli Venditti: «Certi amori fanno giri immensi e poi ritornano». Non esemplificano neppure il carme catulliano: «Odio e amo. Perché lo faccia, mi chiedi forse. Non lo so, ma sento che succede e mi struggo». Matteo Salvini e Giorgia Meloni rifuggono ogni sentimentalismo. Si detestano, più o meno. Prima, cordialmente. Adesso, platealmente. E non sono i soli, nel centrodestra. Silvio Berlusconi li considera due volenterosi ragazzotti. E Giovanni Toti, alla triade, preferisce ormai Matteo Renzi: e c’è davvero poco altro da aggiungere.
Il capo della Lega e la leader di Fratelli d’Italia continuano ad accapigliarsi. Da quando Re Sergio, dopo deliranti trattative, è stato nuovamente incoronato presidente della Repubblica. Sintesi meloniana: «Quello che ha fatto Salvini è folle. Eravamo d’accordo che la rielezione di Mattarella fosse l’ultima cosa da fare». Dunque, motteggia: «Meglio soli che male accompagnati». Pure il leghista va forte coi detti popolari: «La coalizione s’è sciolta come neve al sole». Lei si fa sotto: «La ricostruisco io». Lui non molla: «Il nostro modello può essere il partito repubblicano». Lei: «Non mi riguarda». Lui: «Se qualcuno vuole perdere da solo, è libero di farlo». Ancora lei: «Prediligono Pd e Cinque stelle». Di nuovo lui: «Un conto è stare fuori e dire sempre no, un conto è stare dentro e confrontarsi con Franceschini e Speranza».
Avanti così, da settimane. Si torna lì: al governissimo. Un anno fa la Lega decide di appoggiare Mario Draghi. Salvini, confortato da Giancarlo Giorgetti, diventato ministro dello Sviluppo economico, è speranzoso: gli elettori capiranno. Invece, è più ardua del previsto. Fratelli d’Italia, nella beata solitudine dell’opposizione, fa sfracelli. Da febbraio 2021 a oggi, è salita nei sondaggi dal 16 al 21 per cento. Primo partito d’Italia. Percorso inverso per la Lega: dal 23 al 17 per cento. Non serve un fine politologo per intuire i flussi elettorali. Giorgia l’implacabile continua ad attaccare. Matteo il governista abbozza. L’assaltatrice taccia l’alleato: incoerente. Il vacillante rintuzza: pretestuosa. «È colpa sua». «No, sua». Silvio Berlusconi, da buon moderato, li lascia scornare. Vuoi vedere che è la volta buona per recuperare consensi? Al momento giusto sarà lui, il magnanimo padre nobile, a far da paciere. Meditate elettori, meditate. L’ex premier, d’altronde, è quello uscito meglio dalla battaglia per il Colle. Ha tolto di mezzo la sua candidatura, per «senso di responsabilità». Ora sibila sornione: senza Forza Italia non si va da nessuna parte. Mal che vada, i neocentristi sono pronti ad accoglierlo a braccia aperte.
Comunque sia: nell’attesa dell’inevitabile ricomposizione, Giorgia e Matteo non demordono. Stringi stringi, l’unico argomento su cui sembrano concordare è il vaccino anti Covid alle rispettive figlie under 11. All’unisono, rispondono: giammai. Per, il resto: nulla, di convergente, da dichiarare. Prendiamo il controverso tema del super(sonico) green pass. «Un ignobile ricatto da abolire subito» dice Meloni. Più accomodante, Salvini: «Penso e spero che, con la fine dello stato d’emergenza, finiscano i divieti». Eh no, intervengono i forzisti: «Non saremmo seri se dicessimo che a marzo si potrà superare l’obbligo» smorza Licia Ronzulli, influente senatrice. Non c’è pace. Botte da orbi. Non solo sull’emergenza sanitaria. Ma pure sulle concessioni balneari. O i rincari delle bollette. E perfino sull’immigrazione e gli sbarchi, con la leader sovranista che accusa di inerzia l’ex ministro dell’Interno.
Fratelli d’Italia, almeno, è un monolite: non s’ode alcuna voce di dissenso interno. Il capo del Carroccio, invece, deve fronteggiare l’anima più soffice del partito. L’ennesima scaramuccia, sul superbonus, è innescata da Giorgetti, vicesegretario leghista. Droga il settore, spiega: «Stiamo facendo salire i prezzi e contribuiamo all’inflazione». Salvini, però, non ha ripensamenti: «Si bloccherebbe il settore edilizio che è in ripresa. È fondamentale andare avanti».
Ma è solo l’ultima divergenza. Da mesi, Giorgetti eccepisce. Rimarca assoluta fedeltà al «fuoriclasse» Draghi. Mentre non lesina critiche a Salvini: dovrebbe smettere di dar sganassoni alla Bud Spencer, dice lo scorso novembre, per fare «il campione d’incassi in un western». Piuttosto, meglio un ruolo da protagonista «in un film drammatico candidato agli Oscar»: alla Meryl Streep.
Matteo, insomma, dovrebbe metter finalmente giudizio. Per diventare persino uno stimato membro del Ppe in Europa. Pungolano anche i governatori del Nord-est: Luca Zaia, doge veneto, e Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli-Venezia Giulia e della conferenza delle Regioni. I due non perdono occasione per rimarcare debita distanza dall’ala populista: su vaccini, carta verde ed emergenza sanitaria. Così perfino un vecchio volpone come Dario Franceschini, ministro della Cultura e capo della corrente AreaDem, auspica «uno spostamento della Lega verso il centro moderato». E mette zizzania: «Salvini si sta positivamente interrogando sul futuro posizionamento della Lega». Il ritorno al proporzionale, aggiunge, può favorire questa evoluzione. Insomma, il bacio della morte.
Forza Italia, intanto, vive i soliti tormenti geometrici. Il cerchio magico del Cavaliere accusato di spadroneggiare. I peones con niente da perdere, tentati dalle sirene centriste. I maggiorenti lamentano l’emarginazione. I più riottosi, ironia della sorte, sembrano i meglio piazzati. Sono i tre ministri azzurri. Maria Stella Gelmini, agli Affari regionali, baruffa con i detestati fedelissimi di Berlusconi. S’accoda Mara Carfagna, che guida il dicastero per il Sud, da anni sul punto di lasciare.
Infine Renato Brunetta, alla Pubblica amministrazione. Scoppiettante l’ultima intervistina: basta con il «bipolarismo bastardo» suggerisce. Addio a Lega e Fratelli d’Italia. «La coalizione recente di centrodestra sembra non esistere più» avverte Brunetta. Dunque, anche lui, auspica il proporzionale. Forza Italia abbracci dunque il riformismo. E poi, tutti al centro. Eppure, il tempo per baruffare e disquisire sarebbe già finito. In primavera ci sono le amministrative: 25 capoluoghi di provincia al voto. Altra tornata cruciale, vista l’opaca prova dello scorso settembre. Salvini, dopo quella sconfitta, fu solenne: «Abbiamo indicato troppo tardi i nomi su cui puntare. Entro novembre dobbiamo scegliere con gli amici Giorgia e Silvio: candidati civici o non civici, in modo da avere almeno 5 mesi per presentarli e far conoscere i programmi». Tutti annuirono. Basta improvvisazione. Solo che, come arcinoto: «Dai nemici mi guardo io, che dagli amici mi guardi Iddio».
Prendi Toti, per esempio. Era il delfino del Cavaliere. Non solo: vantava superbi rapporti sia con Salvini che con Meloni. Adesso invece, nella sua Liguria, si rischia il patatrac. Con il Carroccio è guerriglia quotidiana. «Il nostro futuro non passa da Mastella e Renzi» svelena il leader leghista. Il governatore, di rimando, lo invita a far cadere il consiglio regionale: per andare a nuove elezioni con le altre città. A maggio, difatti, si vota a Genova. Il sindaco uscente, Marco Bucci, è in ambasce. Il secondo mandato sembrava un gol a porta vuota. Indicato 5 anni fa dai leghisti, fila d’amore e d’accordo anche con il presidente ligure. Dunque, che si fa? Guerra termonucleare o turata di naso?
Più in bilico La Spezia, già espugnata, per la prima volta nella storia, da un uomo del centrodestra: Pierluigi Peracchini, totiano d’ordinanza. Di conseguenza, avversato dai leghisti. A Verona, di converso, i centristi si acquartierano con gli invisi populisti. Assieme alla Lega, appoggiano Federico Sboarina, di Fratelli d’Italia, che cerca la riconferma. Deve vedersela con l’ex calciatore Damiano Tommasi, sostenuto dal centrosinistra. Ma pure con l’ex sindaco del Carroccio, Flavio Tosi, appoggiato da Forza Italia.
Caos sovrano in Sicilia. Si vota in primavera a Palermo e in autunno alla regione. Nel capoluogo, Meloni s’è portata avanti già lo scorso novembre, lanciando la deputata Carolina Varchi. Ma anche la Lega vorrebbe uno dei suoi. Mentre i forzisti guardano al centro. L’inossidabile Gianfranco Miccichè, presidente dell’Assemblea regionale e proconsole del partito, loda Davide Faraone, aspirante sindaco già in campagna elettorale. A sua volta, l’ultrarenziano elogia la ridiscesa in campo dello stesso Miccichè, pronto a battersi invece per la regione: «Sta dimostrando di avere coraggio».
Nell’isola fiorisce il campo largo. Fusione a freddo di teste calde. È Forza Italia Viva. La rinascita, fuori tempo massimo, dell’indimenticato Nazareno. Anche per la disfida a governatore, Meloni non ha cercato la concordia. Nello Musumeci, presidente in carica, è già ufficialmente ricandidato. Insomma, tutti contro tutti. Parenti, anzi alleati, serpenti. Come nelle migliori famiglie politiche.