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Democrazia in ritirata

Democrazia in ritirata

Colpi di Stato dalla Tunisia al Myanmar, ma anche diritti politici a rischio: in molti Paesi il virus diventa il pretesto per ridurre le libertà. E in Cina e Russia l’autocrazia è conclamata.


Scienziati e virologi non possono essersene accorti, perché non ne hanno gli strumenti, ma il Covid possiede un livello doppio di contagio. Il virus, questo lo si sa da fine 2019, attacca soprattutto i polmoni degli esseri umani. Ma ha un altro tipo di carica, altrettanto subdola e pericolosa, che i ricercatori in camice bianco non hanno notato. Eppure è una carica altrettanto letale, che sta permettendo al Covid d’infettare e uccidere altri organismi. In particolare, le democrazie più fragili.

È accaduto in Tunisia, dove sopravviveva l’unico regime liberale prodotto dalle «primavere arabe» del 2011: a fine luglio, dopo una protesta di piazza per la disastrosa situazione economica e sanitaria del Paese, il presidente Kais Saied ha decretato lo stato d’emergenza, chiuso il Parlamento, licenziato il governo e s’è messo a governare con metodi sempre più autocratici.

In febbraio è successo di peggio in Myanmar, la vecchia Birmania, dove un colpo di Stato teleguidato dalla Cina ha spodestato il governo legittimamente eletto del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi e ha conferito ogni potere ai militari. In ottobre anche la quasi-democrazia del Sudan è stata schiacciata da un colpo di Stato, e nel resto dell’Africa, nei sei mesi precedenti, lo stesso è accaduto in Ciad, in Mali, in Guinea.

È vero che l’Africa non è mai stata terreno facile per i regimi democratici. Ma la situazione non è per niente rosea in molte altre parti del globo. L’International institute for democracy and electoral assistance, un’organizzazione indipendente basata a Stoccolma che dal 1995 analizza il grado di libertà nei cinque continenti, scrive che nel 2021 il 64 per cento dei governi mondiali avrebbe utilizzato la pandemia come pretesto per adottare «misure sproporzionate, non necessarie o illegali per comprimere i diritti dei cittadini». I dieci Stati nei quali Idea denuncia un più grave declino delle libertà civili, in ordine alfabetico, sono Benin, Bolivia, Costa d’Avorio, Mali, Nicaragua, Polonia, Slovenia, Serbia, Turchia e Ungheria. Certo, è possibile che gli osservatori di Idea guardino il mondo con un filtro pessimista, o che i criteri di democraticità percepiti in Svezia siano troppo sensibili ai minimi slittamenti in senso autoritario. Ma la statistica fa impressione. E questo anche se gli Stati della «lista nera» di Idea, in effetti, sono molto diversi tra loro: la Turchia di Recep Tayyp Erdogan, per esempio, è un’autocrazia sempre più dittatoriale; mentre Polonia, Serbia, Slovenia e Ungheria, per quanto censurate dall’Unione europea per le recenti spinte involutive soprattutto nel controllo dei media, conservano un fondamento di garanzie liberali. Eppure la grande ritirata delle democrazie è una verità incontrovertibile.

Un preoccupante bilancio sullo stato della libertà è venuto alla metà di dicembre anche dal «Summit for democracy». Organizzato dalla Casa Bianca di Joe Biden per rintuzzare le ambizioni dei sempre più aggressivi modelli autoritari di Cina e Russia, ma soprattutto per rilanciare l’appannata leadership americana, il vertice – cui hanno partecipato 110 Stati – ha dovuto limitarsi alla mesta constatazione della crisi del modello occidentale: secondo il Pew Research Center, un think tank di Washington che valuta il rispetto delle libertà nei 208 Stati del mondo, oggi solo 17 Paesi sarebbero società davvero aperte e democratiche (in ordine decrescente di apertura: Svezia, Nuova Zelanda, Canada, Singapore, Taiwan, Olanda, Australia, Germania, Regno Unito, Corea del Sud, Stati Uniti, Italia, Spagna, Belgio, Francia, Giappone e Grecia).

Alla fine del summit lo stesso Biden, sconsolatamente, ha riconosciuto che «il mondo sta vivendo uno storico momento di svolta nel duello tra democrazia e autocrazie». Proprio gli Stati Uniti, frenati da disastrose divisioni politiche interne e costretti all’arretramento in tanti quadranti strategici, non sembrano all’altezza della situazione. È come se il Covid, il morbo che non per nulla il predecessore Donald Trump all’inizio del 2020 aveva definito come «il virus cinese», avesse infettato non solo gli abitanti e le economie del mondo libero, ma anche le loro istituzioni e le culture. In molte democrazie, del resto, oggi c’è chi propone di copiare il modello di controllo sociale adottato nella Repubblica popolare cinese, dove da anni miriadi di telecamere, dotate di riconoscimento facciale e collegate a una rete di megacomputer governativi, guidano i movimenti di quasi un miliardo e mezzo di sudditi imponendo stringenti limiti.

Ovvio: si tratta di sistemi tecnologici oppressivi, ammissibili soltanto sotto un regime poliziesco e dispotico come quello cinese. Eppure anche in Italia c’è chi pensa possano diventare un modello. Il deputato grillino Pino Cabras ha affermato in Parlamento che i metodi di controllo di Pechino non sono tanto diversi da quelli adottati in Occidente. E visto che contro il Covid quei sistemi sono così efficaci, c’è chi pensa sia il caso di tentare qualche esperimento. Finora l’idea in Italia è stata respinta, però ci sono governi democratici che cominciano a provarci: nella Corea del Sud, a Bucheon, un comune di 850 mila abitanti nei sobborghi di Seul, è stato appena varato un sistema di riconoscimento facciale basato su 11 mila telecamere, capace d’individuare i positivi al Covid e ricalcolarne i movimenti. Ma sistemi biometrici di controllo in certo modo assimilabili al «Grande fratello cinese» sono allo studio anche in India, Polonia, Giappone e in alcuni Stati americani.

Il problema è che, di fronte ai disastri del virus, le regole della democrazia occidentale non sono riuscite a creare un sistema di gestione altrettanto efficace dell’occhiuto controllo tecnologico cinese. Ovvio che quel risultato, per gli Stati democratici, fosse irraggiungibile in partenza: un governo che non deve fare i conti con alcuna opposizione, e può imporre in qualsiasi istante la legge marziale o le regole più draconiane, dispone di strumenti inevitabilmente più efficienti contro l’emergenza sanitaria.

Però l’arretramento globale della democrazia è sempre più evidente. È come un’onda di riflusso, un sommovimento storico che ormai supera d’impeto lo stesso problema del Covid e diminuisce il grado di libertà anche negli Stati, che di liberale hanno ben poco.

È così in Cina, per esempio. Nel 2021 il presidente Xi Jinping ha reso il suo potere perpetuo. In più, ha imposto una stretta alle liberalizzazioni economiche introdotte 40 anni fa dal suo predecessore Deng Xiaoping. A Xi è bastato ordinare l’esemplare arresto di un magnate dell’industria come Jack Ma, geniale inventore del colosso informatico Alibaba, e decretarne l’esautorazione: in un sol colpo, il presidente è riuscito a mettere in riga tutti i grandi capi d’impresa cinesi e a riportare l’economia «privata» del Paese sotto il controllo dello Stato e nell’alveo dei dettami del Partito comunista. Per non parlare della «democrazia relativa» di Hong Kong, che Pechino negli ultimi due anni ha schiacciato in modo definitivo. O delle crescenti minacce d’invadere la democratica Taiwan.

Anche la Russia di Vladimir Putin, come Xi sempre più uomo solo al comando, da mesi accumula truppe ai confini con l’Ucraina, preparandosi a un’invasione. E ora minaccia anche la Nato, pretendendone l’arretramento da tutti gli Stati che un tempo facevano parte dell’ex Urss. Insomma, tira un’aria decisamente brutta. Il rischio, come al «Summit for democracy» ha detto il segretario di Stato americano Antony Blinken, è che ora Russia e Cina «possano accarezzare l’idea di accantonare le loro rivalità in Asia per realizzare un’intesa antieuropea e antiamericana». Un’ipotesi fin qui mai vista: ma un’alleanza delle due superpotenze illiberali contro l’Occidente potrebbe diventare la minaccia peggiore per le sempre più fragili democrazie occidentali. n

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