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Così l’Ex-Ilva si può salvare (con un po’ di carbone e senza ArcelorMittal)

Così l’Ex-Ilva si può salvare (con un po’ di carbone  e senza ArcelorMittal)

Esiste una via d’uscita dall’attuale gestione fallimentare nella crisi del maggiore polo dell’acciaio italiano. Un gruppo di manager ha elaborato un piano fattibile ed ecocompatibile che preserva produzione e posti di lavoro. Tutto, come sempre, dipende dalla volontà politica…


Fornitori non pagati, produzione ai minimi, manutenzione trascurata, lavoratori in cassa integrazione. Sembra senza fine la crisi dell’ex-Ilva, il gruppo siderurgico passato nel 2018 sotto la gestione del colosso anglo-lussemburghese ArcelorMittal. Il quale, se entro il prossimo 30 novembre non sarà raggiunto un accordo per l’ingresso di un soggetto pubblico nella società, alzerà i tacchi e abbandonerà l’Italia. Uno scenario disastroso, frutto dell’incompetenza di una classe politica che non ha saputo affrontare il destino del maggiore impianto siderurgico d’Europa.

Ancora oggi il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli promette ai cittadini di Taranto «la totale decarbonizzazione dello stabilimento in cinque anni» garantendo però gli stessi livelli occupazionali: il che sembra molto improbabile. Mentre il Movimento 5 Stelle vuole chiudere l’area a caldo, togliendo così all’Italia la produzione dell’acciaio di massa e condannandoci alla dipendenza da altri Paesi, Cina in testa, indicata dai servizi segreti come molto interessata a Taranto. Insomma, tanta demagogia e poca concretezza.

Eppure, nonostante tutto, l’ex-Ilva può avere un futuro. Può produrre utili, dare lavoro a quasi tutti gli attuali dipendenti e inquinare di meno. Utilizzando però, per un po’ di anni, ancora il carbone. Ne è convinto un gruppo di una decina di dirigenti ex Italimpianti (la società di impiantistica che realizzò negli anni Sessanta lo stabilimento siderurgico di Taranto e altre acciaierie e tubifici in giro per il mondo) che, con la collaborazione del sindacato dei manager Federmanager di Liguria e Taranto, ha realizzato uno studio per il rilancio dell’impianto pugliese.

Il dossier, scritto prima dell’estate, è stato consegnato al Cnel e anche il ministero dello Sviluppo economico ne ha una copia. «A spingerci a scrivere questo documento» spiega Marco Vezzani, presidente di Federmanager Liguria e membro del Comitato europeo sociale ed economico (l’equivalente del Cnel, esprime il suo parere sulle proposte della Commissione), «è stata la passione per la siderurgia. Ma soprattutto l’indignazione come cittadini nel vedere come un tema vitale per lo sviluppo produttivo italiano sia stato abbandonato a se stesso. Abbiamo messo insieme competente tecniche, progettuali e strategiche con l’obiettivo di proporre queste nostre considerazioni alle istituzioni affinché l’ex-Ilva esca dalle sabbie mobili in cui è finita».

«Sul caso Ilva si sono fronteggiate due posizioni estreme» sostiene Vezzani. «Una che propone la chiusura facendo pagare il conto ai contribuenti, l’altra che si limita a spremere il limone finché si può, come è stato con i Riva e ora con ArcelorMittal. Noi riteniamo invece che si possa coniugare una gestione più sana da un punto di vista ambientale con l’esigenza per l’Italia di avere una grande industria siderurgica. Il piano ambientale previsto per Taranto va bene, è a livelli tedeschi se non superiori, è già stato realizzato per il 50 per cento e il percorso si può completare. Dal punto di vista industriale si deve proseguire la produzione tradizionale di acciaio con gli altoforni affiancandole la produzione con riduzione diretta e forno elettrico, in modo che progressivamente il peso di quest’ultima aumenti fino a rendere l’impianto pulito. Non è un’operazione che si potrà fare in poco tempo, saranno necessari fondi europei e anni di lavoro. Ma si può fare, l’Ilva ha ancora un futuro».

Premesso che occorre «ripristinare e rendere non modificabile retroattivamente lo scudo penale a protezione di chi si accingerà all’immane compito del risanamento ambientale del centro siderurgico di Taranto», il piano targato Federmanager immagina lo stabilimento diviso in due parti: nella prima si continuerebbe a realizzare acciaio in modo tradizionale, usando gli altoforni 4 e 5 (quest’ultimo andrà riattivato), con una produzione annua di 6 milioni di tonnellate. Nella seconda parte si utilizzerebbe la riduzione diretta e forno elettrico per produrre circa 2 milioni di tonnellate annue. «La tecnologia di riduzione diretta e i forni elettrici» dice Vezzani «costituisce un’alternativa produttiva caratterizzata da emissioni di CO2 pari a circa la metà di quelle tipiche dell’altoforno. Ma richiede forti investimenti e per ora non è del tutto competitiva. Potrà esserlo nei prossimi anni».

Sarebbero quindi necessari, sottolinea lo studio, «sostanziali contributi pubblici europei e italiani sia a copertura dell’investimento iniziale sia della parte di costi di esercizio inizialmente non in equilibrio». L’ipotesi dunque è di arrivare a 8 milioni di tonnellate di produzione (il doppio di quanto realizzato dall’ex-Ilva nel 2019), una quantità «ritenuta sufficiente per assicurare la necessaria redditività dell’esercizio». E per garantire l’occupazione di quasi tutti gli attuali 10 mila dipendenti del gruppo (Genova e Novi Ligure compresi). Per quanto riguarda i tempi, l’insieme degli interventi previsti e dettagliati nello studio «richiederà approssimativamente 36 mesi per essere completato».

Si tratterà comunque solo di un primo passo verso una graduale riduzione della produzione con il carbone: «In questa acciaieria divisa in due zone», precisa Vezzani «in una si continuerà per un certo numero di anni a produrre acciaio con l’altoforno nel modo più pulito possibile, ma la produzione con forno elettrico dovrà progressivamente crescere nel tempo». L’ipotesi di usare l’idrogeno al posto del carbone, avanzata anche dal ministro Patuanelli, per Vezzani è oggi «pura fantasia». «L’acciaio si fa con il carbone e lo si può fare inquinando sempre di meno. Poi ci sono la riduzione diretta e i forni elettrici, un’innovazione matura che adesso non è completamente competitiva ma con il tempo lo diventerà».

Vezzani ormai ha forti dubbi sulla reale volontà di ArcelorMittal di rimanere a Taranto: «A livello personale penso che ArcelorMittal non abbia più intenzione di restare in questo caos italiano, pagherà le penali previste e se ne andrà. In ogni caso, con o senza ArcelorMittal, il nostro piano prevede un intervento pubblico, necessario per accompagnare una trasformazione industriale così importante. Sarebbe comunque auspicabile che accanto allo Stato ci sia un operatore siderurgico».

E qui si arriva a punto centrale della questione Ilva: la scarsissima competenza di chi se ne sta occupando. «Ormai in Italia si è persa la capacità progettuale e impiantistica che invece esiste in altri Paesi dove si produce acciaio. Mi risulta che al ministero dello Sviluppo economico ci sia una “mini-struttura” di appena due-tre consulenti che seguono Taranto, quando per fare l’impianto ci vollero di oltre 300 specialisti di Italimpianti e Italsider. Insomma, manca una squadra di esperti capace di spendere bene i soldi che qualcuno deciderà di investire sull’impianto. In questi anni tutta la classe politica si è disinteressata completamente del futuro dell’Ilva, limitandosi a seguire in modo superficiale le istanze degli ultra-ambientalisti e di una certa magistratura. Le uniche voci che si sono sentite sono quelle dei manager, della Confindustria e di Federacciai». Troppo poco.

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