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Sfida americana. Se Ron batte Don

Sfida americana. Se Ron batte Don

Quarantenne, origini italiane, conservatore ma con aperture libertarie, il governatore della Florida DeSantis si sta affermando come il nuovo esponente di punta tra i repubblicani. Il suo Stato è tra i meglio amministrati della Federazione. Trump, coinvolto nelle conseguenze giudiziarie della sua presidenza, sembra aver trovato il rivale nella corsa per la Casa Bianca del 2024.


E se alla fine il giovane Ron facesse le scarpe al vecchio Don? Oggi tutti scommettono che il naturale candidato dei repubblicani per la Casa Bianca, nel 2024, sarà il 76enne Donald Trump. Ma un concorrente temibile sarà di certo Ronald DeSantis. A quasi 44 anni, gli ultimi tre dei quali vissuti da governatore della Florida, Ron è divenuto il mito degli elettori del Grand old party grazie a una serie di mosse azzeccate, a una ben costruita fama di conservatore libertario, e al ruolo – puntigliosamente dichiarato e rivendicato – di strenuo nemico di tutti gli insopportabili eccessi della sinistra radicale americana.

Antiche origini avellinesi, una brillante laurea in legge ad Harward e una gioventù vissuta nelle fila dei marines tra la base cubana di Guantanamo e il deserto dell’Iraq, nel 2010 DeSantis è stato congedato con la Bronze Star, la medaglia che premia particolari atti di valore in combattimento. Poi ha fatto l’avvocato, per qualche anno deputato al Congresso, dov’è stato tra i fondatori di Freedom Caucus, un gruppo liberista vicino al Tea Party anti-tasse, e dal gennaio 2019 governa la Florida circonfuso di un’accecante forza mediatica.

È vero che il suo mandato terminerà nel gennaio 2023, e che DeSantis è già il candidato ufficiale designato dal suo partito per vincere il secondo mandato alle elezioni che si terranno il prossimo 8 novembre, ma fin qui lo smaliziato governatore ha sempre rintuzzato ogni domanda su ciò che farà alle presidenziali del 2024. E si sa bene come vanno queste cose: quando l’alta politica chiama…

In tutti i sondaggi tra i potenziali candidati repubblicani alla Casa Bianca, del resto, Ron continua a piazzarsi poco sotto Don, a volte appena sotto, mentre gli altri concorrenti restano molti passi indietro. Agli americani questa gara deve fare un certo effetto, perché DeSantis nel 2018 divenne governatore grazie a una campagna che lo vide sempre legato a filo doppio a Trump, allora presidente, e ne fece il suo mentore e ispiratore ideologico. Oggi, invece, la competizione tra i due è aperta, diretta, dura. E si gioca anche sul fund raising, la raccolta di denaro tra i sostenitori. Dalla fine del 2021 allo scorso 5 agosto, DeSantis è riuscito a raccogliere 142 milioni di dollari. Anche la dimensione di questi fondi, spropositati per una campagna elettorale in Florida, lascia ipotizzare ambizioni ben più elevate: tanto più alla luce dei «soli» 136 milioni che nello stesso periodo Trump ha incassato per concretizzare i suoi sogni revanscisti, alla riconquista dello studio ovale.

Intanto i supporter di DeSantis continuano ad aumentare, da costa a costa. Di recente perfino Elon Musk, il multimiliardario e geniale fondatore di Tesla, ha rivelato ai suoi 104 milioni di follower su Twitter che alla Casa Bianca vedrebbe volentieri il governatore. Contro l’ex presidente, al contrario, rischia di proiettarsi la luce sempre più negativa dell’inchiesta aperta dall’Fbi sul suo presunto fiancheggiamento all’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. E a Washington, dopo alcune perquisizioni e la propagazione di notizie d’indagine come bombe a orologeria, si comincia a pensare che l’incriminazione ufficiale del vecchio Don sia cosa certa.

Davanti a DeSantis, in quel caso, potrebbero spalancarsi praterie immense. Libero da concorrenti, finalmente, il governatore potrebbe raccogliere quanto ha seminato. Se agli inizi della sua carriera politica Ron aveva riunito tra loro le due parti del suo cognome, forse per ridurne il tasso di italianità, nei tre anni trascorsi alla guida della Florida è riuscito nell’impresa ben più complicata di riunire le due ali dell’elettorato repubblicano, conquistando sia i moderati sia gli ultra-conservatori.

E può gettare sul tavolo risultati oggettivamente eccellenti. Sotto la sua guida il «Sunshine State», lo Stato della luce del sole come gli americani chiamano la Florida, è divenuto un vero faro per tutto il Paese. E s’è prepotentemente imposto come modello positivo. La ricetta di Ron si basa su una serie d’ingredienti recuperati dalla tradizione liberale americana. Il primo è un sistema tributario agile e leggero come un colibrì. In Florida, oggi, il totale degli oneri fiscali vale appena il 9,1 per cento: un tasso di gran lunga inferiore al 12,4 del Delaware, uno Stato che pure è considerato quasi un paradiso fiscale, ma anche al 13,5 della California; ed è quasi la metà del 15,9 per cento che da tempo schiaccia l’economia nello Stato di New York.

Gli altri ingredienti della cucina politica desantisiana sono tutti coerenti: poco Stato, pochissima burocrazia, e tanta, tanta libertà in ogni campo. La spesa pubblica pro-capite della Florida è tra le più basse degli Stati Uniti, inferiore del 35 per cento rispetto alla media nazionale. In Europa questo sarebbe considerato un titolo di demerito, invece per l’americano medio è un bonus impareggiabile, l’evidente risultato di una corretta amministrazione. Non per nulla, Miami e Palm Beach sono tra le quattro città più ricche degli Stati Uniti, e non ci si trova un homeless a pagarlo oro.

Da tre anni, inoltre, la Florida attrae nuovi cittadini da ogni parte d’America. Perfino Trump ha abbandonato New York, sempre più sporca e insicura, per trasferirsi qui. Dal 2019 hanno fatto come lui oltre un milione di americani, e la popolazione della Florida è aumentata del 4,5 per cento, con quattro residenti su dieci provenienti da un altro Stato. È per questo se è al terzo posto per abitanti (che hanno raggiunto i 22 milioni) dopo California e Texas.

Le famiglie traslocano qui anche per iscrivere i loro figli alle scuole pubbliche, tra le poche degli Stati Uniti che grazie a DeSantis respingono l’ottuso conformismo censorio della «cancel culture» e l’indottrinamento condizionato dalla «critical race theory»: il credo estremista che vede in ogni bianco (anche se bambino) l’inevitabile portatore di un deleterio «razzismo genetico», da cui deve emendarsi con atti e parole. Gli assurdi eccessi della sinistra americana, che in Europa – sbagliando – consideriamo come stravaganze, nelle scuole della Florida trovano un’opposizione senza quartiere.

Insofferente al politically correct imperante, DeSantis ha osato schierarsi perfino contro la Disney, il colosso che dal 1971 ha proprio in Florida il suo mega parco di divertimenti Magic Kingdom. La casa dei cartoni animati, ormai pervasa dall’ideologia «woke» e dalle teorie «gender», si è genuflessa al «pentimento bianco»: è, in definitiva, il quartier generale del politically correct più deleterio. In nome dell’ideologia, la Disney censura le favole: il principe azzurro di Charles Perrault oggi non risveglia più la Bella addormentata con un bacio, perché è un’evidente molestia; Aladdin viene rinnegato in quanto islamofobo. E nei suoi nuovi film, oltre a esaltare le minoranze etniche, impone coppie gay e protagonisti dalla sessualità ambigua.

Contro questa crociata paradossale da anni DeSantis è in prima linea e lo scorso marzo ha varato una legge intitolata «Parental right of education», che difende i diritti dei genitori nell’istruzione e vieta che dall’asilo alla terza elementare si affrontino i temi dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere. La Disney ha reagito sospendendo i finanziamenti elettorali ai repubblicani. DeSantis ha risposto minacciando la cancellazione delle esenzioni fiscali (600 milioni di dollari l’anno) di cui la casa gode in Florida.

Il risultato? Oggi sette abitanti della Florida su dieci approvano l’operato di DeSantis. A livello nazionale, se può sembrare banale che l’85 per cento dei repubblicani sia con lui, molto meno scontato è che lo sia il 40 per cento degli afro-americani e il 62 della comunità ispanica. Per tutto questo, tenete d’occhio Ron: farà strada.

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