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Come si riposiziona il potere

Come si riposiziona il potere

In vista di una vittoria del centrodestra e, soprattutto, della leader di FdI, sono partiti i riposizionamenti nei maggiori quotidiani e (ovviamente) in Rai. Ma alla nuova fase appaiono sensibili anche alcune personalità dell’élite economica. I cui nomi circolano già per la lista dei futuri ministri…


Codice rosso! Anzi, giallorosso. Giorgia, in gioventù, tifava Lazio. Mica Roma, come assicura adesso. Il tremendo dilemma è inevitabile: può una donna che cambia fede calcistica diventare la prima premier della storia repubblicana? Giammai. All’armi son sovranisti! Repubblica continua la forsennata caccia all’uomo nero: i rapporti con la fetida ultradestra. Al momento, però, lo scoop più croccante rimane quello pallonaro: Meloni, da pischella, sarebbe stata lazialissima. Inaudito! In compenso, il giornalone per eccellenza, il Corriere della sera, sembra cominciare a guardarla con simpatia. Prima un’ossequiosa intervista del magazine Sette. E poi la rassicurante ovvietà vergata da Ernesto Galli della Loggia, eterno editorialista di Via Solferino: «Considerare fascisti lei e il suo partito, pronti cioè a usare la violenza contro la sinistra e decisi a limitare le nostre libertà, appare alquanto inverosimile». Insomma, il lungimirante editore del Corrierone, Urbano Cairo, si sarebbe portato avanti. «Anche se quelli de La Sette restano scatenati…» ricorda un influentissimo meloniano.

In compenso, il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, s’è già sbilanciato: «Dovessi dare un consiglio a Berlusconi, gli direi di puntare sulla Meloni. È lei che può riportare il centrodestra a Palazzo Chigi». Sottolineare invece il riposizionamento in Rai risulta superfluo. Ormai, nei corridoi di Viale Mazzini, s’ode un solo nome: «Giampaolo dice», «Giampaolo pensa», «Giampaolo fa». Il riferimento è a Rossi, ex membro del cda, l’intellettuale più attiguo alla leader di Fratelli d’Italia. Vabbè. Fisiologico, patogenetico, ineluttabile. La tv pubblica è sempre il primo pianeta ad allinearsi. Meno scontato è che, a dispetto dell’avversa narrazione, molti «poteri forti» gravitino già nell’orbita. Alcuni, da tempi insospettabili. Vedi l’amministratore delegato dell’Eni: Claudio Descalzi. Il suo rapporto con Giorgia viene definito «strettissimo». E quanto mai strategico, viste le decisive partite energetiche che l’Italia sta giocando. La sua abilità negoziale, dimostrata con gli accordi sul gas in giro per il mondo, è leggendaria. Così, qualcuno si spinge a immaginarlo eccellente ministro degli Esteri in un ipotetico governo di centrodestra.

Il generale meloniano, però, ridacchia: «Magari… Ma chi glielo fa fare? Il suo ruolo vale 12 ministeri…». La prospettiva, quindi, è differente. In primavera il suo incarico scadrà. E Descalzi potrebbe puntare al quarto mandato di fila. Del resto, il manager è uno degli uomini più influenti del Paese: capace di siglare accordi fondamentali con l’Algeria, mantenere relazioni strette con il Quirinale, perorare la causa atlantista. Il tema dell’approvvigionamento sta talmente caro alla leader da convincerla a titolare la recente convention milanese del partito con un’ammiccante metafora: «Energia da liberare». Su quel palco è salito anche Stefano Donnarumma, a.d. di Terna, la società che gestisce la rete elettrica nazionale. Intervento apprezzatissimo, il suo. Da ministro in pectore. E le interlocuzioni sono proficue pure con Francesco Starace, amministratore delegato dell’Enel.

Nell’impero dei colossi statali, il gigantesco Guido Crosetto è re: già ministro della Difesa, triumviro di Fratelli d’Italia, imprenditore. Ma soprattutto presidente di Aiad, federazione delle aziende aerospaziali, di cui è presidente onorario Alessandro Profumo, numero uno di Leonardo. Un manager di opposte simpatie politiche, ma stimato dall’ecumenico consigliori meloniano. Per lui la tagliola dovrebbe, comunque, scattare l’anno prossimo. Il futuro si prospetta invece essere luminosissimo per un altro blasonato manager: Flavio Cattaneo, vice presidente di Italo, vicino al terzo fondatore di Fratelli d’Italia, Ignazio La Russa. Potrebbe essere il prossimo ministro dello Sviluppo. Ruolo cui però ambisce un esimio esponente dell’élite economica, da tempo in avvicinamento: Matteo Zoppas, rampollo della dinastia degli elettrodomestici e raccordo con i piccoli imprenditori del Nord-est, ultima terra da sottrarre al controllo leghista.

Gli scambi di vedute sono proficui pure con il presidente di Confindustria: Carlo Bonomi. Se Giorgia dovesse andare a Palazzo Chigi, sarebbe un alleato decisivo. Il suo mandato scade nel 2024. Consolidata stima anche con Marina Calderone, al vertice dell’ordine dei consulenti del lavoro. Così come con Maurizio Casasco, al timone di Confapi, la Confederazione italiana della piccola e media industria.

Su economia e finanza resta comunque ascoltatissimo Giulio Tremonti, ministro di era berlusconiana: fautore degli eurobond e teorico del riscatto degli Stati. Adesso, tra le altre cose, è presidente in Italia di Aspen, tra i più prestigiosi think tank statunitensi del mondo, considerato un imprescindibile salotto dell’atlantismo che conta. Oltre un anno fa, il nome di Meloni è spuntato tra i soci: quasi l’avvisaglia delle future evoluzioni. Tremonti non disdegnerebbe un trionfale ritorno in via XX Settembre. Ma pesano asprezze caratteriali e vis polemica. Per l’Economia si pensa piuttosto a un supertecnico. Come un altro ex ministro ai tempi del Cavaliere: Domenico Siniscalco, vice presidente di J.P. Morgan. È girato anche il nome dell’a.d. di Banca Intesa Carlo Messina. Lui ha smentito. Resterà al suo posto. E chiarisce: «Non sono affatto preoccupato dalla situazione politica. L’Italia ha fondamentali solidi. Qualsiasi tipo di coalizione che vincerà sarà obbligata a realizzare il programma del Next Generation Eu».

Non di solo spread vive un possibile governo. Venendo al sacro, gli indispensabili rapporti con la Santa Sede passano dall’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la promozione della Nuova evangelizzazione. Ma un insospettabile simpatia c’è pure con il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato Vaticano, che conta di poter bloccare il disegno di legge Zan sull’omotransfobia. Tra i grand commis di Stato, invece, una delle più apprezzate è Elisabetta Belloni, a capo dei servizi segreti ed ex segretario generale della Farnesina, che la leader di Fratelli d’Italia avrebbe gradito al Quirinale. Per gli affari internazionali, il nome ricorrente è quello di un diplomatico: Giulio Terzi di Sant’Agata, ex ministro degli Esteri nel governo di Mario Monti. Arcieuropeista per eccellenza, dunque.

D’altronde la vera partita, per Meloni, si gioca a Bruxelles. Dove però una buona parola potrebbe arrivare perfino da Mario Draghi, data la reciproca stima. E tra un anno, se ogni casella va al posto giusto, il favore potrebbe venir ricambiato. Si libera il posto perfetto per l’uscente premier italiano: segretario generale della Nato. Comunque sia: Meloni, negli ultimi anni, si è mossa con astuzia nello scacchiere continentale. Anzi, non ha sbagliato una mossa. Ha puntato sul fermo atlantismo e l’incrollabile appoggio al presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. Ha approvato l’invio delle armi a Kiev e l’aumento delle spese militari. Al contempo, ha marcato distanza da due vecchi amici sovranisti: Marine Le Pen, a capo della destra francese, e Viktor Orbán, premier ungherese. Acqua passata. Lei guida i Conservatori, ormai. Dopo aver gemellato il movimento con Tories inglesi e repubblicani americani, ha evitato la fusione con Identità e Democrazia, dove siedono Lega e Front national.

In Europa l’alleato privilegiato rimane quindi il Pìs, partito del premier polacco Mateusz Morawiecki, a capo di un governo anti russo. E l’Ods di Petr Fiala, primo ministro ceco e temporanea guida del Consiglio europeo. Provvidenziale. Non a caso, c’era pure lui, due mesi fa, all’incontro tra Meloni e Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo. Foto, baci, abbracci. Del resto, la politica maltese è stata votata anche dai Conservatori, che adesso possono vantare un vicepresidente. Insomma: come potrebbe opporsi Bruxelles alla nomina di un primo ministro, donna per di più, a capo di un gruppo che nell’europarlamento conta già due premier? Eppure, il brancaleonico centro sinistra italiano continua a evocare l’apocalisse nera. Imbeccando stampa tricolore e straniera. S’arriva a ipotizzare perfino la resa: Meloni, terrorizzata dalla propaganda avversa e dal mitologico spread, lascerebbe Palazzo Chigi a un premier tecnico. S’accontenterebbe di fare la madre nobile, ecco. Per far felice la premiata ditta Letta&Calenda.

«Sì, certo. Prendo i voti e poi lascio tutto in mano ad altri…» derubrica lei. Ma dei retroscena non sembra curarsi più di tanto. Prevale la preoccupazione, piuttosto. Tra crisi economica ed energetica, «in autunno non sarà una passeggiata». Eufemistico. Per questo, insiste con gli alleati: niente voli pindarici o promesse irrealizzabili. Per i detrattori non conta. Nubi color pece si addensano sull’Italia: cancellerie in fibrillazione, mercati in rivolta, Bce pronta a stendere un cordone attorno alla moribonda democrazia tricolore. Poi però sorprendono Giorgia, la colpevole a priori, al compleanno di Gianfranco Rotondi. In compagnia di un insospettabile. Si appartano. Parlano fitto per una mezz’ora. Chi è dunque il misterioso interlocutore? Fabio Panetta, unico italiano nel Comitato esecutivo della Bce, ex direttore generale di Bankitalia. Cosa si saranno detti? E Meloni non era un pericolo pubblico? Rotondi, gentiluomo democristiano, è ecumenico: «Giorgia non ha bisogno certo del mio salotto per frequentare ambienti nei quali è più accreditata di quanto si possa pensare…». Da regina della Garbatella a beniamina dei poteri forti. Lei, però, sorvola: «Gli unici mercati che mi interessano sono quelli rionali».

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