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La Cina e la ristrutturazione dei debiti sovrani

La Cina e la ristrutturazione dei debiti sovrani

I Paesi in via di sviluppo hanno immense somme da onorare. E sebbene dopo l’esito del voto in America ci si aspetti un approccio multilaterale, la super potenza asiatica non farà facilmente sconti.


All’indomani delle presidenziali Usa, si è fatto strada il convincimento che sia alle viste un ritorno in grande stile del multilateralismo. Evocato come rimedio miracoloso in grado di curare i mali del mondo e riassorbire la Cina all’interno di una cornice di dialogo, il multilateralismo rischia di cadere quasi subito vittima di aspettative esagerate.

Si prenda il tema del debito dei Paesi in via di sviluppo. Il nuovo quadro di ristrutturazione del debito approvato pochi giorni fa dal G20 e dal Club di Parigi (che riunisce 22 Paesi creditori) permetterà di ristrutturare i debiti sovrani con maggiore trasparenza. Per gli Stati debitori dovrebbe essere più facile e rapido negoziare riduzioni, nuove calendarizzazioni, perfino remissioni del debito. Quanto sarà efficace il nuovo regime di ristrutturazione del debito? Dipende dalla Cina. E qui le cose si complicano parecchio.

L’interesse maggiore degli analisti è rivolto ora soprattutto verso l’Africa sub-sahariana, dove da anni i prestiti dei cinesi hanno goduto di maggiore favore rispetto a quelli occidentali. Come spiega efficacemente Anna Bono, accademica e africanista, della Cina gli africani hanno apprezzato fin da subito che non ponesse condizioni per concedere prestiti e finanziamenti.

«La Cina non pone condizioni politiche per i propri investimenti in Africa» ha confermato il presidente cinese inaugurando a Pechino nel 2018 il settimo Forum sulla cooperazione Cina-Africa, evento che si tiene ogni tre anni dal 2000. «La Cina non intende interferire negli affari interni dell’Africa né imporre la propria volontà. Quel che conta per noi è la condivisione del processo di sviluppo e il sostegno che possiamo offrire al rinnovamento e alla prosperità del continente africano».

È ciò che i capi di Stato e di governo africani si aspettavano di sentire. Hanno sempre denunciato con toni di vibrante indignazione l’arrogante «pretesa» dei Paesi occidentali – che per inciso forniscono gran parte dei fondi destinati agli aiuti umanitari, alla cooperazione internazionale, allo sviluppo multilaterale e bilaterale – di porre limiti e riserve, avanzare richieste: di democrazia, rispetto dei diritti umani, buon governo, tutela dell’ambiente e altro ancora. All’atteggiamento «da colonialisti, indisponente, umiliante, inaccettabile» di chi, solo perché concede finanziamenti, «vuole dettare legge», preferiscono quello cinese, «profondamente rispettoso delle tradizioni e della dignità altrui».

Parlando al Forum di Pechino nel 2018 il presidente cinese Xi Jinping però ha anche detto che le risorse della cooperazione tra Cina e Africa d’ora in poi non devono essere spese in progetti inutili, di prestigio, di facciata, e non succederà: «Verranno utilizzate per realizzare ciò che più serve» ha sottolineato. Questo virtuoso invito alla sobrietà deve essere piaciuto assai meno, posto che lo abbiano preso sul serio, ai leader africani che hanno usufruito dei prestiti e dei finanziamenti cinesi per realizzazioni necessarie – aeroporti, porti, linee ferroviarie e altre infrastrutture – ma anche per tanti progetti costosissimi dalla dubbia resa e utilità, spendendo spensieratamente, come al solito, senza preoccuparsi di accumulare debiti su debiti e con la consueta disinvoltura. E con esiti prevedibili.

Secondo quanto è noto, anche la Cina avrebbe accettato il nuovo quadro di ristrutturazione del debito del G20 e del Club di Parigi. Già diversi mesi fa, Pechino ha annunciato di essere pronta a sospendere i pagamenti di diversi debitori e di praticare alcuni «sconti». Ma quanto ci si può realmente fidare di Pechino? Sarebbe piuttosto ingenuo dimenticarsi che la Cina non fa parte del Club di Parigi, e che finora si è giostrata disinvoltamente con i prestiti, che nella dottrina strategica cinese sono strumento geopolitico, e dunque leva di potere, prima ancora che fonte di rendimenti. Così, ecco che lo Stato africano dello Zambia, secondo produttore mondiale di rame con 11 miliardi di indebitamento sulle spalle, ha il fiato sul collo dei propri creditori. Quelli occidentali hanno acconsentito a una moratoria. La Cina no.

* Esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar

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