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Casta continua con i suoi privilegi

Casta continua con i suoi privilegi

Mentre i comuni cittadini devono affrontare carovita e inflazione, per i nostri politici non esiste crisi: da anni sono sulle barricate per difendere (e spesso aumentare) stipendi d’oro, indennizzi, vitalizi, auto blu, trattamenti di fine mandato, pensioni quasi «baby».


Una battaglia trasversale, e quasi sempre vincente«Ci ripensino!». Ma lo straziante appello di Nichi Vendola agli ex colleghi è caduto con desolazione nel vuoto. L’ex governatore pugliese, nonché indimenticato fondatore di Sel, s’era rivolto ai suoi successori: gli illustri eletti in consiglio regionale. Da tre anni, confidando nel tepore estivo, tentano di riaccaparrarsi l’assegno di fine mandato, abolito nel 2013 durante la fuggevole stagione di morigeratezza. L’audace proponimento è universalmente condiviso. Persino dai grillini, gli ex francescani della politica. Stavolta, sembrava fatta. Anche gli onorevolini pugliesi avrebbero riavuto il maltolto: il meritatissimo Tfm, ossia il trattamento di fine mandato. Quarantamila mila euro per ogni, defatigante, legislatura. Comprese quelle passate, ovvio. Perché il provvedimento sarebbe stato retroattivo, andando a sanare il terribile sopruso patito dieci anni fa: la sforbiciata alla guarentigia.

Già, mancava davvero poco. Ma poi, nonostante le accortezze, dal Tavoliere al Salento monta la rivolta. Cittadini, Confindustria, sindacati. Perfino la Cgil picchia duro: «Siamo di fronte a un atto che nuoce alla democrazia, che allontana ancor più politica e istituzioni» assalta la segretaria generale pugliese, Gigia Bucci. «A mio avviso è un’operazione vergognosa, se andiamo a guardare le dimensioni degli indennizzi». Ovvero, i sontuosi 11.100 euro mensili percepiti dai consiglieri. Così, il governatore Michele Emiliano, dopo aver polemizzato contro gli «ipocriti moralisti», rinvia la discussione sull’agognato Tfm all’autunno, invitando gli scornati colleghi a chiarire con l’inviperita opinione pubblica.

Non c’è molto da spiegare, però. Da anni, per il popolo bue, stipendi e pensioni stagnano. I politici invece non si rassegnano. Da Bolzano a Palermo, stremati da anni di rinunce, si rifanno sotto. Casta continua. Lotta dura e senza paura. Fino all’ultimo privilegio. Sfidando perfino quell’insopportabile demagogia che indispettisce Michelone. Il governatore può almeno consolarsi con un’altra recente prodezza del Consiglio pugliese: aver ridotto la tassazione del 5 per cento sui vitalizi, rimpolpati di 300 euro al mese. Compreso quello dell’odiato fustigatore Nichi. A cui, giustamente, rinfaccia la strepitosa sorte previdenziale: incassa l’assegno dai 57 anni, dopo appena una decade di indefesso servizio alla sua terra natia.

La premier Giorgia Meloni, reduce dalle vacanze in zona, prenda nota. Ecco come si rimpinguano le buste paga dei (baby) pensionati. Non c’è crisi che tenga. Il vitalizio è sacrosanto. Così come la buonuscita, lo stipendione e le lunari prerogative. Giù le mani. Anzi: meglio reintrodurre, rimpinguare, ritoccare. Dal primo all’ultimo eletto: onorevoli, onorevolini, sindaci, assessori, consiglieri comunali.

Pure a Roma si sono adeguati. A Palazzo Madama, due mesi fa, è stata approvata una delibera per cassare il taglio ai vitalizi. Grazie all’astensione del Pd. E all’interessato voto di un ex senatore dei Cinque stelle, proprio il partito che s’era battuto per la madre delle battaglie anticasta: applicare ai parlamentari il sistema contributivo dal 2012, quando è entrato in vigore per i comuni mortali. Nonostante il voto contrario di Lega e Fratelli d’Italia, è stato però ripristinato l’ancien régime: il generosissimo calcolo retributivo. La maggioranza promette di alzare barricate alla camera. Si vedrà. Anche perché gli onorevoli s’erano già distinti aumentando gli stipendi per i presidenti dei gruppi: 2.227 euro lordi in più al mese.

Le inevitabili polemiche hanno spinto gli interessati ad annunciare la rinuncia al ritocchino. Ci ha pensato però l’eterno Piero Fassino, ex segretario dei Ds, sette legislature sulle scheletriche spalle, a regolare i conti con gli arruffapopoli. Munito di ammirevole spavalderia, s’è presentato in Aula sventolando l’ultimo cedolino: «L’indennità netta dei deputati è di 4.718 euro al mese. Quando sento dire che godono di stipendi d’oro dico: “Non è vero!”. Perché 4.718 euro sono una buona indennità, ma non uno stipendio d’oro».

Alla dignitosa sommetta vanno comunque aggiunte una serie di voci ancor più sostanziose: 3.503 euro di diaria, 3.690 per l’esercizio del mandato, 1.107 per andare dall’aeroporto al Parlamento, oltre che a trasporti illimitati e gratuiti. Poco più di 13 mila euro netti, dunque. Erosi solo dall’eventuale assunzione di collaboratori. O dalla sfibrante attività nei collegi d’elezione, che però moltissimi nominati vedono ormai solo in cartolina.

Per non parlare dei vitalizi. Il sistema rimane sbalorditivo. A cominciare dall’età per accedere alla pensione: 65 anni per chi ha fatto un mandato. Che si riducono addirittura a 60, con appena due legislature. Ci sono pure inarrivabili eccezioni, come in Calabria: in cambio di una lieve decurtazione, gli ex consiglieri possono raggiungere l’ambito traguardo già a partire dai 55 anni.

Insomma: bastano dieci anni di contributi. Mentre gli italiani, per maturare il diritto, hanno tassativamente bisogno di almeno vent’anni di lavoro: il doppio. Nonché 67 anni d’età: sette in più, sciali calabresi a parte, di quanti ne servano a parlamentari e onorevolini.

Varcato lo Stretto, c’è la casta con le sarde. Di fronte ai temerari colleghi, non ha mai sfigurato. È personificata da Gianfranco Miccichè, ex ministro forzista e adesso consigliere regionale. Che periodicamente deflagra, per giustificare l’inviolabile cedolino: «Non ho ville, non ho yacht, non rubo!». In compenso, grazie alla sua solerzia, da venerato ex presidente dell’Assemblea regionale siciliana gode dell’auto blu. Prerogativa del resto assicurata, nella capitale, perfino a un indomito fustigatore della casta come Roberto Fico, già presidente grillino della Camera.

Pure in Sicilia, comunque, sono riusciti a sconfiggere l’inflazione. È quindi scattato l’adeguamento dello stipendio al crescente costo della vita: 850 euro al mese in più. Dopo le ire della premier, l’Ars ha deciso di «congelare» la sortita. A partire dalla prossima legislatura, però. Tra quattro, lunghissimi, anni. Per gli omologhi sardi, invece, vale l’opposto: si sono accontentati di un aumento di 300 euro mensili. Che decorrono, però, dalla scorsa legislatura. Ovvero, dal lontano 2014.

Anche in Trentino-Alto Adige, dove la vita è maledettamente cara, si sono concessi la rivalutazione su base Istat: oltre 700 euro mensili. Accompagnata dal solito rinforzino alle pensioni, chiaramente. Ma pure in Friuli-Venezia Giulia l’inflazione spaventa. «Felicità a momenti e futuro incerto», canta Tonino Carotone. Nell’angoscia del domani, hanno rivisto all’insù il vitalizio. Stavolta però i Cinque stelle gliele hanno cantate. «Nel giro di pochi mesi, gli ex consiglieri si sono visti aumentare la propria quota di assegno mensile dell’8,1 per cento» ruggisce la capogruppo, Rosaria Capozzi.

Che, nel frattempo, presenta un emendamento per ottenere asili a prezzo scontato. Urgono difatti tariffe agevolate nei nidi e le materne della regione, anche per gli sfortunati figlioli dei rappresentanti del popolo. «Sono convinta che una donna debba essere messa nelle stesse condizioni di chiunque» arringa la grillina. «Se qualcuno pensa che io ho fatto questo emendamento ad personam, sì l’ho fatto». L’ingiustizia va sanata. Così come lo spericolato uso del congiuntivo.

Restava un’ultima angheria populista da vendicare: la riduzione del numero dei parlamentari e dei consiglieri regionali. Lo scorso governo s’è quindi adoperato per rendere più appetibile anche la carriera politica nei paesi e le città. Bisognava ricompensare meglio sindaci, assessori e consiglieri comunali. Tutti gli eletti hanno dunque visto lievitare sensibilmente i propri emolumenti, in base al numero degli abitanti.

A partire dalle 14 città metropolitane. Il sindaco di Roma, per esempio. Rispetto a Virginia Raggi, colei che l’ha preceduto, lo stipendio di Roberto Gualtieri è passato da 9.762 a 12.508 euro: quasi il 30 per cento più. Anche l’agognato gettone dei consiglieri capitolini è stato adeguatamente rivisto, arrivando a superare pure i cinquemila euro mensili. L’Italia è l’unico Paese europeo in cui non crescono i salari? Infamità. Ai politici basta uno strapuntino.

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