Le intercettazioni del caso Palamara? «Di una gravità inaudita». Bonafede? «È troppo indebolito per fare il ministro». Parla l’avvocato Guido Calvi, docente di diritto ed ex membro del Csm. Che però sottolinea: «In questo momento la magistratura è la classe dirigente più affidabile e con la cultura istituzionale più solida».
La crisi della magistratura «mette in discussione il controllo di giurisdizione: se entra in crisi questo, entra in crisi la democrazia». Guido Calvi osserva preoccupato il momento difficile della giustizia. Avvocato tra i più importanti d’Italia, professore universitario, senatore per tre legislature in liste di sinistra, al Csm dal 2010 al 2014, compirà 80 anni a luglio e ha attraversato la politica dal Pci al Pd, pur se di indole socialista («Il mio maestro è stato Lelio Basso»). Purtroppo, lamenta, la politica di oggi è senza qualità: «La prima volta che sono entrato nella commissione Giustizia del Senato mi sono emozionato. Adesso, quando vado a Palazzo Madama, i commessi si mettono le mani nei capelli se parlano degli attuali senatori».
Con la sua esperienza da avvocato, parlamentare e membro del Csm, le intercettazioni del caso Palamara l’hanno sorpresa o erano cose che ha sempre saputo?
«Ho avuto una reazione molto severa. Che ci fosse questo tipo di rapporti era noto a tutti, ma mi hanno sorpreso la quantità di richieste e gli argomenti che si concentrano su due temi: carriera e procure. Non si parla di processi, così come compaiono raramente i giudicanti, e questo deve far riflettere».
Perché sono quasi solo pubblici ministeri al centro di queste telefonate?
«La procura è l’unica struttura dell’ordinamento giudiziario che ha un vertice, il procuratore con tutti i poteri, poi i procuratori aggiunti con poteri più limitati e i sostituti con poteri di magistrato, ma non relativi all’organizzazione. Giuliano Vassalli, uno dei più grandi giuristi della nostra storia, definiva questo processo “tendenzialmente accusatorio”, da inquisitorio che era, ma non è diventato accusatorio come si sperava».
Quali sono i momenti critici?
«È fallito l’obiettivo principale, i riti alternativi che avrebbero dovuto risolvere il processo evitando un intasamento nel dibattimento. La seconda ragione, su cui pochissimi riflettono, è il fallimento del controllo, cioè del funzionamento del giudice per l’udienza preliminare, il gup. Il sistema basato su un pm che chiede e su un gup che concede non funziona per la sproporzione tra pm e gup (sono tre a uno) e per i milioni di pagine di processi che hanno oberato i giudici. Oggi il potere del gup è esiguo, deve solo valutare se può essere utile o meno portare al dibattimento quel procedimento, il che significa non entrare mai nel merito».
Indirettamente, quindi, il potere dei pm è aumentato nel tempo.
«Si è potenziata la centralità dei pubblici ministeri. Si arriva al processo con il materiale elaborato dal pm, che spesso è quello della polizia giudiziaria. Senza il controllo preventivo dei gup, i processi si rinviano, i tempi si dilatano e si arriva alla prescrizione: è il fallimento del processo. Bisogna rinforzare il ruolo dei gip e dei gup come controllo e rilanciare i riti alternativi come i patteggiamenti e i giudizi abbreviati. Purtroppo oggi il Parlamento non ha la forza né la qualità culturale per fare questo tipo di riforme».
Lei è stato eletto per la prima volta al Senato nel 1996 e c’era una classe politica molto diversa.
«Quando sono entrato per la prima volta nella commissione Giustizia ero emozionato al solo pensiero che su quelle poltrone si erano seduti personaggi come Vassalli o Marcello Gallo. Con me c’erano anche magistrati di altissimo livello, come Elvio Fassone e Salvatore Senese, che hanno dato contributi ineguagliabili alla legislazione».
Concorda con il vicepresidente del Csm, Davide Ermini, che ha parlato di «miserabile mercimonio» leggendo quelle intercettazioni?
«È tutto di una gravità inaudita, ma non bisogna né sottovalutare né sopravvalutare. Nella mia esperienza al Csm non sempre il sistema correntizio riusciva a prevalere. Con Annibale Marini e Nicolò Zanon (entrambi in quota centrodestra, ndr) molte volte abbiamo votato insieme: una componente laica non divisa dalla provenienza politica, ma unita da scelte oggettive di merito».
In un’intervista a Panorama Luciano Violante ha parlato di questione morale della magistratura. È d’accordo?
«La magistratura è un’istituzione e la sua crisi mette in discussione il controllo di giurisdizione, la valutazione del principio di legalità, che è un momento fondamentale dello Stato di diritto. Se entra in crisi questo, entra in crisi la democrazia che ha come momento essenziale non solo il Parlamento e il governo, ma anche l’attività della giurisdizione. Pur trattandosi di vicende inaccettabili, non sono d’accordo sul fatto che sia una questione morale, è una valutazione riduttiva».
Violante propone che sia il presidente della Repubblica a scegliersi il vicepresidente al Csm in modo da diminuire il potere delle correnti.
«È una buona idea. Il vicepresidente è indicato dal Parlamento tra i laici, ma i togati sono i due terzi e comunque i veri indirizzi sono quelli del presidente. Giorgio Napolitano interveniva di continuo leggendo perfino i verbali delle commissioni».
Michele Vietti, suo vicepresidente al Csm, ha sempre sostenuto che le correnti dovrebbero limitarsi a essere associazioni culturali che promuovano idee. Vista la realtà, sembra utopia.
«Le correnti nascono come momenti culturali, anzi negli anni Settanta e Ottanta la cultura giuridica e ordinamentale veniva
dalla magistratura. In una libreria giuridica, quasi tutti i testi erano di magistrati più che di docenti universitari, tranne nomi come Giovanni Conso o Cesare Mirabelli. Le correnti davano così indicazioni molto forti. Poi, scomparsi i partiti, sono scomparse anche quelle correnti e sono nati i leader, l’interesse personale prevalente su quello di gruppo».
Una degenerazione, dunque, che deriva dalla scomparsa della cultura cattolica della Dc e di quella laica del Pci?
«Se rileggiamo Norberto Bobbio quando parla della divisione che si era creata tra diritto naturale e diritto positivo, quello naturale era la cultura cattolica e quello positivo la cultura laica. Oggi sono venuti meno sia i riferimenti politici che culturali della magistratura e si arriva così all’attuale degenerazione».
Le offese a Matteo Salvini che emergono dalle chat e il ruolo dell’allora vicepresidente del Csm Giovanni Legnini che sollecitava una nota sull’inchiesta Diciotti hanno provocato critiche bipartisan. Qual è la sua valutazione?
«Sono di cultura garantista e ogni prevenzione non è tollerabile, è di una gravità inaudita. Non conosco gli atti, ma il sequestro di persona pone dei problemi che si discuteranno nel processo: chi ne ha parlato in quelle chat non ha commesso un illecito, ma certo è stata una grave inopportunità».
A chi auspica le dimissioni di Ermini, magari su ipotetiche pressioni del Quirinale, il ministro Alfonso Bonafede replica che così il nuovo Consiglio sarebbe eletto con le attuali norme che invece vanno cambiate. Essendo il sorteggio incostituzionale, cosa pensa di una platea di eleggibili sulla quale estrarre a sorte?
«C’è poco da fare: l’articolo 104 della Costituzione parla di componenti eletti. Ogni elemento che viola questo precetto è incostituzionale».
Finora i pm eleggono i pm e i giudici eleggono i giudici. Bonafede vorrebbe che ognuno votasse chi vuole. Sarebbe utile?
«È un’ipotesi ragionevole, tanto che nell’ultimo Consiglio i quattro pm indicati sono stati eletti, ma c’è anche l’ipotesi della separazione delle carriere fatta dalle Camere penali».
Tema annoso. Lei che ne pensa?
«Ero contrario fino a qualche anno fa perché pensavo che con un processo così in crisi e con una centralità dei pm così forte, la separazione delle carriere aumentasse il potere del pubblico ministero che sarebbe diventato organo di esecuzione di indirizzi repressivi».
Perché ha cambiato idea?
«In realtà sto riflettendo. In tanti processi mi sono reso conto che la qualità dei pubblici ministeri è andata scadendo e la lunghezza dei processi spesso prescritti fa sì che il processo si esaurisca nel primo momento, con l’informazione di garanzia del pm. Dunque bisogna riflettere su come eventualmente separare le carriere, se creare o meno due Csm. Direi che oggi la separazione non è ancora matura, ma bisogna discuterne».
Piercamillo Davigo, oggi al Csm, ha ripetuto recentemente che «l’errore italiano è stato quello di dire: aspettiamo le sentenze».
«Ho molte riserve su certe prese di posizione di Davigo, pur ricordando che è stato un magistrato di grande rigore. Ha fatto diverse dichiarazioni non condivisibili e la sua esposizione è eccessiva: da membro di un consesso come il Csm,
lo inviterei a essere più prudente».
L’inchiesta di Perugia su Luca Palamara ha riacceso le polemiche sull’uso del trojan per le intercettazioni. Da avvocato come giudica l’utilizzo che se ne fa?
«Non c’è dubbio che sia eccessivo ed è sbagliato l’uso che ne è stato fatto a Perugia. C’è un orientamento giurisprudenziale che potrebbe portare all’annullamento di molte di quelle intercettazioni, la gran parte delle quali non ha rilevanza penale. Il trojan fu pensato per combattere la criminalità organizzata o la corruzione, non per episodi come quelli di cui parliamo».
Quali sono gli interventi non più rinviabili?
«La riforma dell’ordinamento giudiziario e il sistema degli illeciti disciplinari. L’allora ministro Andrea Orlando aveva istituito
una commissione per la riforma dell’ordinamento, presieduta da Vietti, e le conclusioni sono conservate al ministero. Si potrebbero riprendere e aprire una discussione politica. Ma le dirò una cosa che forse la sorprenderà: in questo momento
la magistratura è la classe dirigente più affidabile e con la cultura istituzionale più solida. Non a caso tutti i ministeri scelgono tra
i magistrati, non tra gli avvocati o i professori universitari. Quando si parla di toghe in modo molto critico si dimentica che ci sono migliaia di magistrati di serietà indiscussa, di qualità professionale altissima e di moralità solida che tutti i giorni fanno il loro lavoro».
Bonafede è in forte difficoltà da tempo, non ultima la vicenda del pm Nino Di Matteo per l’incarico al Dap poi affidato a Francesco Basentini. Anche nella maggioranza di governo molti ritengono il ministro non all’altezza del compito. Che idea si è fatto?
«Intanto c’è stato un eccesso da parte di Di Matteo che è anche membro del Csm. Questi interventi così clamorosi nei confronti di chi è pur sempre il ministro sono inopportuni. Bonafede, che era debole, si è ulteriormente indebolito, quindi non può imporre
le riforme che propone e ciò lo rende inadatto alla carica di ministro».
Lei sa che gli equilibri di governo spesso impediscono interventi indispensabili.
«Lo capisco, ma la democrazia e lo Stato di diritto si fondano anche sulle garanzie che il cittadino ha nel processo. Non si può tollerare che il cittadino sia esposto a un sistema giudiziario con garanzie deboli: se questo manca, vuol dire che la politica ha fallito. Se si indebolisce la democrazia non ci sono equilibri politici che tengano».
