La pasticciata gestione del Covid ha alienato larga parte dell’opinione pubblica al premier inglese. Le maggiori insofferenze, però, attraversano il suo partito… Eppure BoJo deve temere un altro appuntamento: quello delle prossime elezioni in Scozia.
La domenica, ai lettori abituali del The Times, alta borghesia e classe dirigente, le due pelose e dozzinali pagine sul primo ministro, descritto come uno squattrinato sul lastrico che non arriva a fine mese col magro stipendio da premier (150.000 sterline l’anno) volevano dire una sola cosa: Boris Johnson è un «dead man walking», un morto che cammina.
La stampa inglese, anche quella allineata col governo, è spesso critica con Number 10 (il nomignolo dell’esecutivo), mai però il prestigioso quotidiano conservatore, cartina di tornasole degli umori di Westminster, si era abbassato a fare i conti in tasca pur di attaccare un premier. Un necrologio in piena regola, giustificazione inclusa: la malattia da Covid-19 lo avrebbe fiaccato e dunque potrebbe lasciare incarico per motivi di salute.
Sono mesi oramai che il premier è considerato defunto. E ancor più dopo il giallo del viaggio a Perugia, dove si vocifera che Boris vada per «cene eleganti» nel palazzo rinascimentale del suo amico Aleksandr Lebedev, oligarca russo editore dell’Evening Standard e del The Independent. Alla House of Lords girano addirittura battute piccanti a sfondo sessuale. Tutto sembra tramare contro di lui, continuamente sotto accusa. Le critiche più feroci arrivano, però, da dentro il suo partito: prima su tutte, la gestione del Covid. Dal cinismo dell’immunità di gregge alla cautela del nuovo lockdown, qualsiasi cosa Boris faccia non va bene.
I rumors rimbalzano anche sull’altra sponda della Manica, fino alle colline di Siena: nella isolata Certosa di Pontignano, dove ogni anno diplomazia e affari tra Italia e Gran Bretagna si riuniscono, molti esponenti conservatori davano la fine di Boris certa. Il partito Tory ha una lunga storia di regicidi: molte volte nella storia ha ucciso il suo premier. Ultimo caso, due anni fa, quello di Theresa May, decapitata per far posto a Boris.
Ma ora lo stesso Johnson è come lo yogurt: un premier con la data di scadenza. A gennaio, dopo la Brexit, giusto il tempo di fargli salvare la faccia, sarà cacciato dal suo stesso partito. Tra i Tory, gente di buona famiglia con un’educazione umanistica impartita a Oxford, dove anche lo stesso Boris ha studiato, amano spesso usare il paragone classico della congiura di Cesare. Saranno fatali per Johnson le Idi di gennaio? Il Bruto della situazione sembra esserci già: Rishi Sunak sarà l’accoltellatore. Il fascinoso ministro del Tesoro da tempo è in cima agli indici di gradimento e tutti i media lo stanno pompando come l’anti-Boris.
Al di là dei problemi in famiglia, delle liti manesche con la terza moglie Carrie Symonds, dei troppi figli da mantenere, dei presunti festini «Bunga Bunga style», a Boris il partito non perdona due peccati originali: di non essere un vero conservatore e di dipendere totalmente da una cerchia di consiglieri fuori dal partito e dalla politica, a partire da Dominic Cummings, il Rasputin del governo Johnson, tecnocrati incontrollabili. Boris aspira a essere l’erede di Winston Churchill, anche lui non conservatore e anche lui salito al potere da una delle tante congiure del partito che «assassinò» il Tory purosangue Neville Chamberlain.
Chi potrà prendere il posto del controverso Johnson? Seguendo la teoria delle congiure, Bruto dà la pugnalata ma poi non può aspirare a diventare imperatore, ruolo che andrà all’insospettabile e outsider Ottaviano. Sunak sarà il traditore di Cesare, ma al governo andrà sicuramente qualcun altro.
Tra i cospiratori, ci sono due Richelieu che si muovono dietro le quinte: il leader della Camera dei comuni Jacob Rees-Mogg e Michael Gove, attuale ministro del Gabinetto (un misto tra Funzione pubblica e vicepresidente del Consiglio). Ma Rees-Mogg, che è la perfetta incarnazione del burattinaio, ha una macchia indelebile: la sua famiglia è di fede cattolica (la sorella si chiama Annunziata) e una delle regole non scritte tra la monarchia e il Parlamento è che il primo ministro deve essere anglicano. Dunque il cerchio si restringe al solo Gove, schivo manovratore nell’ombra.
Ogni congiura, da quella contro Cesare ai Pazzi di Firenze, va mantenuta segreta: prima si fa, poi si annuncia. E quella contro Boris appare un po’ troppo sulla bocca di tutti per essere davvero credibile o pericolosa. Per parafrasare una famosa massima di Mark Twain, le voci di una fine politica del premier spettinato – e pure squattrinato – sono decisamente esagerate. Peraltro, dopo dieci anni al governo, tra i Tory serpeggia la sensazione che al prossimo giro toccherà ai laburisti e bruciare, nei pochi anni rimasti, un altro premier forse ha poco senso se davanti non c’è un decennio di potere.
In realtà, le Idi da cui Boris si deve guardare sono ben altre: ad aprile si vota in Scozia. E lì si giocherà la vera partita per la sopravvivenza del primo ministro. Dal 2014, anno del referendum sull’indipendenza perduto per un soffio, la Scozia ribolle e punta a staccarsi dalla Gran Bretagna: lo scorso anno alle elezioni politiche che hanno incoronato Johnson, è salita alla ribalta anche Nicola Sturgeon con il suo Snp, il partito indipendentista oggi il secondo partito nazionale dopo i Tory.
Da ormai un anno la battagliera leader scozzese fa anche il capo dell’opposizione: la prossima primavera su di lei potrebbe rovesciarsi un plebiscito. Con un Snp oltre il 60%, Sturgeon marcerà su Westminster con una richiesta di un nuovo referendum per la separazione della Scozia (e gli ultimi sondaggi danno i secessionisti in netto vantaggio).
Per Boris sarebbe quello il vero colpo mortale. Ecco perché il premier dai capelli arruffati e l’ampio girovita non teme l’ascesa di Keir Starmer. Il belloccio e carismatico nuovo segretario del partito laburista, dopo il fallimentare Jeremy Corbyn, cresce nei sondaggi ma in Scozia il partito Tory non è forte e soprattutto non ha chance di giocarsela in nessuno dei «marginal seats», i seggi in bilico: lì sarà una battaglia tra Snp e Labour.
Se da qui ad aprile Starmer crescerà ancora in popolarità e apprezzamento degli elettori, anche a scapito di Boris, il medesimo premier ne sarà molto contento. Perché l’unico che può togliere voti a Snp in Scozia è Starmer. Il migliore alleato dei Tory oggi sono i laburisti.
Se la campagna denigratoria ancora non lo annoia, il cittadino medio con la bava alla bocca contro il cattivo Boris può fare un salto da Waterstones a Piccadilly, a due passi da Trafalgar Square a Londra. In vetrina nella sezione «Novità» della più grande libreria del Paese fa bella mostra l’ennesimo libro-inchiesta su Boris: il titolo, The Gambler, ossia il giocatore d’azzardo, è già eloquente. Nelle 578 interminabili pagine, l’autore Tom Bower fa una rivelazione clamorosa: la supposta incapacità di Boris è tutta colpa di un’infanzia infelice. Così si spendono 20 sterline per ritrovarsi banali spiegazioni freudiane da caminetto.
