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L’onda rossa sudamericana

L’onda rossa sudamericana

Alla guida della Colombia, per la prima volta, c’è un presidente di sinistra, l’ex guerrigliero Gustavo Petro. I modelli cui si ispira il nuovo potere: Venezuela, Cuba, Nicaragua. Il cambio politico d’ascendenza marxista potrebbe allargarsi al Brasile, dov’è probabile il ritorno di Lula, e ad altri Paesi latinoamericani. Con i rischi legati a interventi sociali che, già in passato, si sono rivelati disastrosi.


Toni Negri, Paolo Flores D’Arcais e Mariana Mazzucato. C’è stata molta Italia nell’insediamento alla presidenza della Colombia, lo scorso 7 agosto, dell’ex guerrigliero Gustavo Petro, primo presidente di sinistra nella storia della nazione. I tre sono stati elogiati e citati ampiamente nei rispettivi discorsi di insediamento sia da lui che da Roy Barreras, nuovo presidente del Senato. Sono dunque il fondatore di Potere Operaio Negri, il direttore di MicroMega D’Arcais e la Mazzucato, che fornisce rapporti settimanali al Papa e al Consiglio Vaticano sull’«economia del futuro», i riferimenti ideologici della Colombia «rivoluzionaria» di Petro. L’ex consigliere politico del defunto leader venezuelano Hugo Chávez, come primo atto presidenziale ha ordinato ai militari di portargli la spada di Simón Bolívar.

Un gesto carico di simbolismo perché proprio Petro, quando guidava il gruppo terrorista M-19 che poi si alleò con Pablo Escobar per attaccare il Palazzo di Giustizia, nel 1974 rubò quella spada. Per ironia del destino, Escobar la regalò al figlio. Bolívar, però, è anche il libertador che ha ispirato le gesta della guerriglia urbana guidata da Petro, che aiutò lo stesso Escobar a distruggere nel 1985 tutti i fascicoli contenenti le accuse di narcotraffico contro il re della coca.

Oggi il nuovo presidente colombiano non si definisce più marxista e giura di non volere espropriare i beni di nessuno, ma anche il Chávez degli inizi negava di essere comunista e poi divenne famoso per gli «espropri proletari». Staremo a vedere che succede ma, preoccupa questa nuova Colombia perché rappresenta un salto di qualità dell’onda rossa che è tornata ad alzare la testa in Perù, Cile, Honduras e Bolivia, dappertutto con candidati marxisti e chavisti.

Per rendersene conto basta ascoltare le parole di Gloria Inés Ramírez, la ministra del Lavoro di Petro, una comunista dura e pura che vede nel disastrato Venezuela del dittatore Nicolás Maduro «il modello da imitare». Stupefatto anche il solitamente pacato Juan Forero, responsabile del bureau che copre il Sudamerica per il Wall Street Journal: «L’ho sentita proprio ora dire a Caracol Radio che i lavoratori del Venezuela stanno progredendo grazie alle politiche chaviste. Sembra non sapere che sei milioni di venezuelani hanno lasciato il loro Paese e due milioni si sono rifugiati proprio in Colombia». Non bastasse, a stretto giro di posta la Ramírez «ha elogiato anche il Nicaragua e ha intimato i giornalisti di Caracol Radio di portare rispetto per il fatto che il popolo del Nicaragua abbia scelto Ortega». Una follia se si pensa che il dittatore sandinista negli ultimi 12 mesi ha espulso oltre mille Ong per «terrorismo», compreso l’ordine delle suore di Santa Madre Teresa, ha fatto arrestare tutti i suoi avversari politici e molti preti cattolici, compreso un vescovo, colpevoli, a suo dire, «di nascondersi dietro la tonaca per destabilizzare lo Stato».

Dopo la Colombia, l’onda rossa sta per lambire anche il Brasile, dove il favorito per le presidenziali di ottobre è l’ex galeotto (per corruzione) ed ex presidente Lula. Come Petro, anche lui un grande ammiratore e partner economico di Raúl Castro, Ortega e Maduro, i tre dittatori di sinistra di Cuba, Nicaragua e Venezuela. Se a questo quadro ci aggiungiamo il ritorno al potere in Argentina dell’indagata (sempre per corruzione) Cristina Kirchner, che sulla carta è vicepresidente ma in realtà comanda a Buenos Aires, preoccupa non solo la rentrée di un’ideologia come quella comunista che ha già fatto oltre 100 milioni di morti. A fare paura è soprattutto il futuro economico della regione, perché i prezzi controllati dallo Stato, insieme all’aumento abnorme della massa monetaria per distribuire sussidi in cambio di voti, sono politiche che tutti i governi di sinistra implementano, anche se hanno sempre causato altissima inflazione, distruzione della classe media, moltiplicazione dei poveri e immiserimento del settore privato.

Questo ritorno del marxismo, a detta del Nobel per la Letteratura, Mario Vargas Llosa, è soprattutto dovuto alla crisi economica seguita al Covid 19 che ha alimentato il malcontento, favorendo la rinascita di una sinistra che si ispira a Cuba. Se anche il 76enne Lula vincesse in Brasile, il trend si rafforzerà con un uomo di sinistra della vecchia scuola, che è ancora visto come una «guida» dai progressisti mondiali nonostante i tanti casi di corruzione che lo vedono protagonista. Con lui la sinistra controllerebbe 13 dei 20 principali Paesi latinoamericani, tra cui le sei maggiori economie, estendendo la sua influenza da Tijuana in Messico fino alla Terra del Fuoco in Cile e Argentina. Euforici per la riconquista di nuove e vecchie trincee, politici, intellettuali e militanti della sinistra sparsi in tutto il mondo non hanno esitato ad attribuire l’ascesa al sostegno alla loro causa e al rifiuto delle politiche pro-mercato attuate dai governi di centrodestra. In realtà questo boom ha poco a che fare con una svolta ideologica degli elettori. «I latinoamericani qui votano semplicemente contro i governi precedenti, indipendentemente dal colore politico, e la sinistra oggi vince le elezioni perché prima al potere c’erano più governi di centrodestra» analizza José Fucs, autorevole giornalista del quotidiano brasiliano Estado de São Paulo. Che poi aggiunge: «In realtà i governi di sinistra hanno trasformato il Venezuela in una Haiti, l’Argentina in un Venezuela e rischiano di trasformare il Cile in un’Argentina. In nome della lotta alla disuguaglianza, hanno finito per socializzare la povertà, aumentando la spesa di risorse pubbliche senza limiti».

A partire dal 2015 questa parte politica era stata estromessa dal potere dal centro-destra in Argentina, Cile, Brasile, Uruguay, Ecuador e Bolivia. La pandemia, che ha colpito soprattutto la classe medio-bassa, l’ha riportata in sella. Il problema è che le ricette della sinistra sono sempre le stesse, ovvero irresponsabilità fiscale, aumento delle tasse, interventismo statale, protezionismo, demonizzazione del profitto e della libera impresa e concessioni a pioggia di sussidi. Sul fronte internazionale, preoccupa non poco l’amicizia di molti esponenti di questa nuova onda con le dittature di Russia e Cina. Un sodalizio anche militare, visto che dal 13 al 27 agosto il Venezuela ospita l’esercitazione Sniper Frontier, con cecchini e truppe scelte arrivate appunto da Russia e Cina, e poi da Iran, Siria e Bielorussia. È la prima volta che accade in America Latina e il messaggio geopolitico, soprattutto a Washington, è chiaro: yankee go home. Per non dire dei presidenti Andrés Manuel López Obrador del Messico, Alberto Fernández dell’Argentina e Luis Arce della Bolivia, che difendono ogni giorno in tv le dittature di sinistra di Cuba, Nicaragua e Venezuela. Lula idem, visto che ha chiesto più volte durante i suoi comizi «perché l’ex cancelliere tedesco Angela Merkel può rimanere al potere per 16 anni e il presidente del Nicaragua Daniel Ortega no? Qual è la logica?», omettendo che Ortega è un feroce dittatore.

Esistono anche rischi istituzionali, visto che la sinistra in questa parte di mondo è solita cambiare le regole elettorali e le costituzioni, e soggiogare il sistema giudiziario per perpetuarsi al potere. È già successo in Bolivia e potrebbe accadere in Cile, dove quattro gruppi armati mapuche, di ispirazione marxista, da mesi stanno mettendo a ferro e fuoco il sud del Paese, nonostante il presidente Gabriel Boric sia un alleato della causa indigena. Intanto, uno dei pochi governi di centrodestra rimasti in America Latina, quello di Guillermo Lasso in Ecuador, è destabilizzato da mesi dal leader marxista degli indigeni, Leonidas Iza, che ha paralizzato -il Paese lo scorso giugno, per tre settimane. Per non parlare del Messico, dove i continui attacchi di López Obrador contro la stampa hanno coinciso con l’aumento senza precedenti degli omicidi di giornalisti, ben 13 dall’inizio del 2022, un triste record mondiale.

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